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sabato 11 settembre 2010

violapensiero n°17


“Perché educhiamo?

Poiché siamo uomini e non animali, dobbiamo domandarci: perché educhiamo? Perché gli animali crescono, senza bisogno di educazione, capaci di svolgere i compiti della loro vita? perché noi dobbiamo educare i nostri figli? Perché non avviene semplicemente che il bambino guardando e imitando, si acquisti ciò di cui ha bisogno per la vita? Perché un educatore, un pedagogo, deve intromettersi nella libertà del bambino? Sono domande che per lo più non si sollevano, perché si considera la cosa naturale.



In realtà si comincia ad essere pedagogo soltanto quando non si considera questo problema come naturale, quando ci si rende conto che è un’invadenza nei confronti del bambino mettersi ad educarlo. Perché il bambino vi si deve sottomettere? Noi consideriamo come nostro compito naturale educare i bambini, ma loro, senza saperlo, non la pensano affatto così! Così noi parliamo di cattiva educazione dei bambini e non pensiamo affatto che noi (certo non alla loro chiara coscienza, ma al subcosciente dei bambini) dobbiamo apparire assai comici quando imponiamo loro qualcosa da fuori. Essi sono pienamente giustificati nel trovare ciò all’inizio assai poco simpatico.”

Rudolf Steiner, L’educazione dei figli

“ I primi tre anni di vita.


In realtà soprattutto i primi tre anni di vita, ma poi anche quelli fino al settimo, sono i più importanti per l’evoluzione complessiva dell’uomo, poiché allora il bambino come essere umano è qualcosa di completamente diverso che più tardi. In realtà nei primi anni il bambino è completamente organo di senso. Ma la portata di questa idea: il bambino è durante i primi anni completamente organo di senso, di solito non viene pensata con sufficiente intensità. Bisogna ricorrere ad affermazioni drastiche se si vuole svelare veramente l’intera verità di questo fatto. Più tardi nella vita l’uomo sente il sapore del cibo nella bocca, nel palato, nella lingua. Il gusto, in certo qual modo, è localizzato nella testa. Nel bambino, specie durante i primi anni di vita, non avviene così: il gusto si manifesta in tutto l’organismo. Il bambino gusta il latte materno e il primo nutrimento fin dentro nelle membra. Ciò che più tardi avviene sulla lingua, si svolge nel bambino in tutto l’organismo. Il bambino vive in quanto gusta tutto quanto accoglie in sé. A questo riguardo vi è qui qualcosa di fortemente animale. Ma non dobbiamo mai pensare che quanto vi è di animale nel bambino sia uguale a quanto di animale vi è nell’animale. Quanto di animale è nel bambino è per così dire sempre innalzato a un livello superiore. L’uomo non è animale mai, neanche quando è embrione, anzi allora meno che mai. Ogni funzione fisica è accompagnata dal gusto, e appunto come il gusto accompagna tutte le funzioni fisiche, così qualcosa che è di solito è localizzato soltanto nell’occhio e nell’orecchio sta nell’intero organismo del bambino.


Quel che nell’adulto è localizzato nei sensi, è esteso in tutto l’organismo del bambino. Perciò nel bambino non vi è separazione fra spirito, anima e corpo, e tutto ciò che opera dall’esterno viene interiormente riprodotto. Il bambino riproduce per imitazione tutto quanto lo circonda.


Dopo aver acquisito questa prospettiva, dobbiamo considerare come tre forme di attività determinanti per tutta la vita vengano conquistate dal bambino nei primi tre anni di vita: camminare, parlare, pensare.”

Rudolf Steiner, L’educazione dei figli



In queste ultime ore Viola si è liberata dell’ultimo pezzetto di cordone ombelicale. Ora è davvero “espulsa”. E’ completamente altro da me. La perdita di questo reperto archeologico della gravidanza può essere raccontata dalla prospettiva delle incombenze che genera o dalla valenza simbolica di cui è carica. Per deformazione professionale non riesco a non cogliere la poesia e il rito che mi sembra si celi dietro ogni piccolo evento, non per questo mi sottraggo alla prosa della medicazione dell’ombelico. In questo caso con un po’ di euro dilapidati in farmacia in garze, retine e acqua ossigenata in pochi giorni tutto si asciuga. Tutt’altra storia le emozioni che mi provoca quest’ultima separazione e che associo, forse fin troppo liberamente, ad alcuni passi sopra citati di Rudolf Steiner. I pensieri del pedagogista e filosofo austriaco sembrano così attuali, che verrebbe da pensarlo ancora in vita, invece il suo contributo arriva tra fine ‘800 e i primi decenni del ‘900. Rimangono in vita i suoi pensieri che sono diventati vere e proprie filosofie e prassi di vita (antroposofia, la scuola steineriana, l’agricoltura biodinamica, riflessioni sull’architettura, la religione e la spiritualità, l’arte e la parola…).

Adesso che Viola è “tutta tutta” staccata, sento che la domanda di Steiner ha un peso non irrisorio per me e per il suo papà, e perché no, per tutti gli adulti che si avvicineranno a lei nella sua infanzia. Perché educhiamo, prima ancora di come. Un ordine curioso per quesiti imponenti. Siamo registi di un film in cui Viola, come un attore, cercherà il suo ruolo nella tragicommedia della vita. Ogni volta che entro nella sua camera per sottrarla al suo lettino, questa sensazione che racconta Steiner, mi accompagna fedelmente. Mi sembra di invadere il suo spazio e di impormi senza mediazione con quanto ritengo giusto per lei in quel momento. So che posso sembrare in follia post partum con questi pensieri, ma cercare di essere presenti con testa, corpo e anima, mentre ogni giorno come un’industria ripeti le stesse azioni - svegliarla, popparla, cambiarla, lavarla, vestirla, ecc… - ti stimola qualche riflessione più profonda. Certo la cacca schizzata sui muri (Viola ha del talento!) ti riporta continuamente a terra, ma non per questo si placano i viaggi dell’anima.

Intanto mi sa che ci vedono davvero avvolti da questo alone di comicità. Mi chiedo sempre come avvicinarmi a lei perché non si senta accerchiata da un adulto che in preda all’ansia di prestazione muta il suo comportamento in faccette, mugolii, versi e versetti per placare quella distanza immensa che s’impone tra noi adulti pensanti, figli dell’intelletto da troppo tempo, e loro bimbi, come ricorda Steiner, che non conoscono “separazione fra spirito, anima e corpo”.

Nel testo citato tempo fa, Il linguaggio segreto dei neonati, propongono di rivolgersi a loro come con altri adulti, non ragionando…, ma spiegandogli passo passo tutto quello che andremo a compiere. Rifarlo ogni giorno può sembrare assurdo o inutile e può destabilizzarci, ma nello sperimentare questo consiglio, io e il papà abbiamo visto che prima di tutto fa bene a noi, perché illustrare a Viola cosa stiamo per fare con lei o per lei, richiede a noi di essere “connessi”, di non essere con la testa da un’altra parte o con il cuore rivolto ad altri. A tratti essere connessi a loro è un’esperienza spontanea, altri giorni presi da numerose incombenze è molto più difficile. Steiner esprimerebbe questa modalità, dicendo che bisogna accostarsi a loro con “veridicità” e non scimmiottando un linguaggio che noi pensiamo adeguato per l’infanzia.

Sapere che ogni cosa che noi facciamo per loro li pervade, sempre illuminati da Steiner, in ogni meandro del loro organismo senza nessuna divisione, è una grande meraviglia, ma è anche una responsabilità. Stiamo parlando alla persona tutta intera, un’esperienza che possiamo fare con una tale purezza in questi primi anni della sua vita. Noi subito a fare i conti di come potremmo ripristinare i tempi del lavoro, per ovvi motivi, e invece sarebbe da seguirli passo passo in questa avventura dei sensi.



A proposito di lavoro… ieri sono ritornata al cinema. Le riviste per cui scrivo mi chiedono le recensioni e visto che Viola trascorre ore e ore in compagnia di Morfeo, ho deciso di provare ad infilarmi in sala d’accordo con la nonna che se avesse dato qualche segnale di pappa o quant’altro mi sarei precipitata a casa previa telefonata. Tutto è andato bene e quando sono tornata dopo due ore di film lei ancora dormiva in pace. In biglietteria ragazze ancora lontane dalla mammite mi guardavano incredule per la ciambella che mi accompagnava sotto braccio. Forse si saranno chieste se tornavo dal mare e non che semplicemente non volevo sedermi sopra i souvenir del parto. In realtà avevo perfino la maglietta con un bell’alone di latte sul seno, difficile da accettare per me ma questa è la vita e i ritmi da mamma (alcune amiche per la cura di vestiti e gingilli mi chiamavano bomboniera!). Sono partita tra una poppata e un cambio, sentendomi parte dei racconti al femminile che si concludono dicendo “imparerai a fare più cose insieme e in un tempo così esiguo che nemmeno immagini”.

Non contavo di rimettermi a scrivere così presto e l’avrei accettato con tranquillità, ma tra le cose che si possono scoprire solo durante, come ad esempio la durata del travaglio-parto, c’è anche questa. Alcune cose che ritenevi impensabili in realtà possono convivere. Da acrobata, come tutti i genitori, ma ci sta. Durante la prima ora del film mi sono lasciata trascinare via dalla storia, risucchiata dallo schermo; quando mi sono resa conto che per la prima volta dopo dieci giorni mi ero dimenticata di Viola per un po’ di tempo mi è venuto da piangere e ho ricordato il senso di colpa che molte madri mi avevano raccontato. Poi è passato, ma ho percepito come ci fecondi una dedizione che se da una parte promuove energie e cure splendide per i figli dall’altra parte, se non rimaniamo vigili, c’imprigiona in una condizione tutta rivolta alla maternità. Il rischio di annullarsi in loro ci porta lontano dal dare una risposta al perché educhiamo. Quanto equilibrio è richiesto ad una donna “in disparte” mentre alleva i propri figli.



So che vi è rimasta una curiosità: che film mi ha rapita. C’è pure un personaggio con il nome Viola e la storia è una spada insanguinata sul tema genitori-figli. Come farsi del male in tempi di fragilità post parto! Si, avete immaginato bene… La solitudine dei numeri primi, il film che Saverio Costanzo ha tratto dal romanzo che abbiamo letto davvero in tanti di Paolo Giordano. Al di là che la colonna sonora affidata a Mike Patton è strepitosa e dall’inizio alla fine è una partitura su cui si posa tutta la sofferenza di cui la storia è intrisa, il film, come il romanzo, è un viaggio sui toni infernali che l’infanzia può assumere per alcuni bambini e che nella maggioranza dei casi diventa un marchio a vita. In realtà la versione cinematografica apre ad una riconciliazione con se stessi, che il romanzo non lasciava emergere. Costanzo con questa variante lascia intendere che se anche la nostra famiglia invece di aprirci alla vita, ce la nega giorno per giorno con inconsapevoli ma feroci violenze, non è mai detta l’ultima parola. Qualcuno sarà sepolto da tanto male, vivrà con la solitudine dei numeri primi. Altri nella solitudine dei numeri primi troveranno un cuore amico, se non l’amore, con cui accarezzare le ferite impresse nella totalità della persona (dal corpo all’anima). Come diceva Steiner, iniziamo la vita come un organismo di sensi e tutto ciò che viene dall’esterno si riproduce interiormente. Come genitori, educatori, adulti abbiamo il dovere di trasformare questa condizione in opportunità e non in tragedia. Si, meglio chiedersi perché educhiamo.



Arrivederci al prossimo film, al prossimo violapensiero.

lunedì 6 settembre 2010

violapensiero n°16


L’inatteso e la maternità.



«Mi sono scoperta dei lati violenti, delle angosce che non conoscevo. E’ l’esperienza che mi ha cambiata di più in assoluto. Mi è apparsa una faccia nuova di me stessa, isterica, egoista, collerica. Per esempio non avrei mai immaginato di non sopportare le continue richieste dei miei figli o di annoiarmi in loro compagnia. A volte, dopo aver passato il week-end a sentire i loro strilli e a mettere in ordine i loro giochi ho addirittura voglia di ucciderli! Penso che mia madre abbia vissuto tutto questo senza mai poterlo dire.»


Sono parole inconsuete; ci vuole coraggio per pronunciarle e per accettare che vengano messe nero su bianco. Una simile testimonianza resa in pubblico è rara e forse unica, ma riecheggia altre parole udite all’uscita da scuola, in bar o in treno, fra due madri che si scambiano confidenze sui figli rumorosi e troppo vivaci. In questi spazi di parole improvvisate, di incontri più o meno organizzati, le madri a volte osano “dirsi”.


Bisogna stare attenti per capire davvero quello che pensano. Parlano, certo, ma con parsimonia, approfittando di pochi istanti per dire una fatica, un’angoscia, un malessere, una stanchezza. Sono rivelazioni succinte, quasi private, verbalizzazioni del desiderio di “gettare il bambino dalla finestra”, che spesso vengono prese sottogamba dall’interlocutore. E d’altronde le donne contano sul sottinteso che la parola pronunci un impossibile, qualcosa che non si farà mai. […]


Le madri soffrono e non lo dicono. Non è una novità; ogni epoca ha costruito il suo silenzio, chiudendo una parte dell’umanità in un universo senza parole. Sono le donne quelle che hanno più taciuto su questo vissuto intimo di se stesse, sul momento così condiviso e così solitario che è la nascita di un figlio. Se è un bambino voluto dai genitori, voluto dalla società in funzione del mantenimento del tasso di natalità, il momento di metterlo al mondo, attraverso il passaggio corporeo che si iscrive nell’anima di ognuna, e l’incredibile sconvolgimento più o meno lieto che lo accompagna sono destinati a restare nel silenzio.


Raccogliere le lacrime e le parole di un corpo, che narrano la storia di un desiderio di maternità annullato, spezzato, deludente, perturbante ma anche felice, atteso, sperato, fa parte di una politica sanitaria pubblica di cui tutti siamo responsabili. Queste parole non devono essere soffocate, devono anzi essere condivise, perché il soggetto che le pronuncia possa vivere e non limitarsi a sopravvivere. La prevenzione sbandierata dai responsabili delle istituzioni, può scaturire solo dall’ascolto delle sofferenze e delle parole delle madri. Il sapere non è altrove, è nel cuore di ogni madre. Occorre tempo e pazienza per raccogliere, analizzare, comprendere il loro vissuto. Non ci siamo ancora arrivati e il concetto di prevenzione, per ora, esiste solo sulla carta.”

Sophie Marinopoulos

Nell’intimo delle madri – Luci e ombre della maternità



Sophie. Sono così emollienti e balsamiche le sue parole, che mi viene da chiamarla per nome. E' psicologa clinica e psicoanalista. Nel suo libro fa riferimento al suo paese – la Francia – dove esercita e promuove la salute psichica come parte integrante del sistema sanitario nazionale. Lo scenario che illustra mi sembra possa calzare anche al di qua delle Alpi e possa avvicinarsi alle confidenze di madri appena impastate e di altre più stagionate.

Una settimana fa… a proposito di appena impastate, più o meno a quest’ora, dopo un mio viaggio che senza vergogna definirei all’inferno – ma con biglietto di ritorno per il Paradiso! – è nata Viola. Ho cercato di darla alla luce con tutta me stessa, per ore perdendo i sensi continuamente dallo sforzo, quasi simbolicamente per lasciarle un po’ di spazio in questo mondo. Tanti dettagli e complicazioni hanno impedito quella spinta finale tutta mia, che la ponesse completamente al di fuori di me.

Era lei che stava ancora troppo bene nella perfezione del grembo? Ero io che non volevo abbandonarmi fino in fondo alla filiazione? Un braccino, un giro di cordone al collo? Così ipotizzavano le ostetriche o piuttosto, senza troppi fronzoli, un bacino di mamma troppo esile per una bimba gonfia di salute? Domande sedate dopo 18 ore dal taglio, più che generoso, di un medico che con sole tre mie spinte finalmente l’ha innalzata al cielo, accompagnato dal fragoroso applauso del terzo turno di ostetriche e infermiere. La sensazione di un celebrante per una liturgia intrisa di vita e morte. E io che tremante lo abbraccio e esclamo forte “alla faccia del secondo natura!”. Ho desiderato scappare, morire, essere tagliata, il cesareo, l’epidurale.  

Nei giorni successivi una mamma in ospedale mi ha raccontato che con l’epidurale aveva sofferto poco e ad ogni contrazione era riuscita a pensare alla sua bambina. Ammissione: io ho sempre pensato alla mia pelle, era tutto così forte che non riuscivo ad andare oltre alla speranza di non crepare. Mi sentivo inadeguata. Era colpa mia che non usciva? Una schiappa? Con contrazioni a 130 la tua psiche, malgrado tutto, riesce comunque ad imporsi anche tali domande e torture. Eppure tuo marito, meglio di un CT della nazionale come sostegno e sprono per tutta la durata, e le ostetriche sono lì che ti rassicurano che stai dando il massimo e nel modo giusto. Non basta; quelle domande ti s’insinuano lo stesso tra uno svenimento e l’altro. Per tutte le mie 18 ore Mauro è stato il volto, che ormai non vedevo più nitidamente, capace di ravvivarmi senza tregua l’obiettivo di quel soffrire al limite della vita. La voce e la mano che mi raccontavano che ero lì per Viola.

In questo blog ci siamo confidati tante volte che il parto è il proseguimento di un atto sessuale che non si placa e abbraccia la vita. Ora comprendo che lo è nel senso più letterale di “farlo per amore”. E senza di lui non avrei saputo tenere accesa questa speranza, il dolore mi avrebbe sepolta. Un’esperienza di famiglia.

Al termine del turno le ostetriche per la terza volta si consegnano il lavoro incompleto e si confidano “sembra debole, ma è una leonessa”. Ancora non mi basta per non sentirmi in colpa. Angeli, le ostetriche. In particolare mi si è impressa nell’animo Veronica. Ha fatto di tutto per farmi fare il travaglio e il parto in vasca, anche se il tipo di gravidanza a rischio per diabete lo escludeva. Le coccole dell’acqua avrebbero stemperato l’inferno del gel che aveva indotto per tutto il pomeriggio le contrazioni vertiginose. Ce l’avevamo quasi fatta e dopo il contro natura del gel (non lo consiglierei mai, ma alcune situazioni potrebbero richiederlo e te la metti via!), la vasca sembrava la riconciliazione, il purgatorio dopo l’inferno. E ancora dopo 3 ore di contrazioni e spinte in acqua Viola non esce e Veronica, convinta di fare in tempo, chiude anche il suo turno e mi saluta dispiaciuta. Lì mi sono sentita senza madre adottiva, malgrado l'ostetrica fosse ben più giovane di me. Insomma un’odissea, dove nessuna preparazione poteva anticipare l’esperienza avvenuta. Mi sono sentita irrisolta a tal punto da non godermi nemmeno il momento che tutti decantano: Viola appoggiata al petto in sala parto. Solo lacrime.

Mezzora dopo in camera quando si è attaccata ad entrambi i seni, siamo ritornate ad essere madre e figlia come in questi 9 mesi. In mezzo il black out di una giornata. La settimana che si è appena conclusa tra dolori pazzeschi per emorroidi di proporzioni e quantità purtroppo rilevanti, i punti della ferita, gli svenimenti per debolezza e l'ingorgo mammario, è stata una degna prosecuzione del travaglio. E certo che si piange, intanto per il male e poi per il “passaggio corporeo” che cambia per sempre il nostro intimo.



Ogni notte faccio sogni strani che sono chiaramente collegati alla paura, al dramma che mi è rimasto sulla pelle. Scrivere quello che ho vissuto e percepito mi sembra un esorcismo liberatorio. Anche travolgere di qualche bacetto la nostra Viola non mi veniva spontaneo nei primi giorni, mi sentivo intrappolata nel male fisico e anche una sola effusione mi faceva tremare tutto il corpo. La convalescenza è fisica e psichica, ma come dice Sophie non sempre questa seconda dimensione trova cittadinanza d’ascolto. La visita che precede la dipartita dall’ospedale fa il punto dettagliato sul tuo fisico ma il resto compete a te. A rendermi ancora più inadeguata il foglio di dimissione in cui si segnala che la signora ha avuto un parto classificato come SEMPLICE. Certo, la testa c’arriva a comprendere il perché, ci sono parti ben più rischiosi anche se più brevi, ma quel “semplice” ti fa crollare nel mondo dei fantasmi. Non ce l’ho fatta ed era semplice.

Quando guardo gli occhi di mio marito, mentre ripensiamo al travaglio, vedo in lui il desiderio di rassicurarmi che ho dato più di quel che potevo dare e lo ringrazio per questa delicatezza. Arrivano in ogni caso i giorni del pianto, non so quanto durino, so che si piange per niente, si piange per una parola in più, si piange per una parola non detta, si piange per la paura, si piange perché vorresti stare con il dolore intimo ma il dolore fisico ti attanaglia. Eppure se le lacrime scendono (la seconda rottura delle acque, non documentata in cartella, ma abbondante e necessaria), un po’ alla volta passa. Da ieri mi sento già in una sorta di bolla più positiva e le gambe mi reggono in timidi spostamenti fuori dal letto.

Arrivano le effusioni abbondanti senza lacci interiori per Viola, bacetti e altri strusci lenitivi, l’allattamento come una delle forme più alte di sessualità (davvero maestosa!), le confidenze con tuo marito su una casa che non sarà più la stessa e che profuma di pienezza, un tirocinio di coppia quotidiano su come impostare le nuove giornate e le tante riflessioni condivise nei 9 mesi diventano un utile percorso segnato da Pollicino che nemmeno la paura di morire è riuscita a portarsi via.

Sarà come dicono tutte che poi si dimentica. Sinceramente non so se è proprio così, ora mi sembra impossibile, ma non metto limiti alla Provvidenza. L’unica cosa di cui non ho dubbio è che le madri soffrono. Fin da subito. E che la sofferenza non si può tacere. Nell’esprimerla già ritorna il sorriso. Se ne coglie anche l’ombra esagerata che talvolta ci sovrasta senza motivo. A tante donne avevo promesso a poche ore dal parto che a breve mi sarei unita alle imperfezioni che ciascuna mi ha confidato più o meno pubblicamente. E’ andata proprio così, ma ogni ora che passa mi sento anche sempre più vicina a quella maternità piena che avevo percepito in gravidanza. La vita mi sta disarmando e l’imperfezione mi nutre. Con la stessa voracità con cui i figli cercano il capezzolo, noi madri cerchiamo l’ascolto di qualcuno che possa contenere “le luci e le ombre”.

Da anni in questi giorni vivevo sempre la magia e la frenesia della Mostra del Cinema al Lido. Quest’anno nel mio red carpet sfila un’unica star di color violetta, che riesce a fare la cacca sempre tre volte a getto continuo mentre la stai cambiando o morderti il capezzolo e guardarti con le labbra sporche di sangue. Abbastanza pulp e horror da non farmi rimpiangere il presidente di giuriaTarantino. Per il resto è un unico piano sequenza: dorme, dorme e ancora dorme. Sarà vero?

Come mi suggeriva un amico, Viola profuma di biscotto e desidero intingerla nel te della vita.

Sono felice, molto, serena un po’ alla volta.