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lunedì 20 dicembre 2010

Violapensiero n°27

Ogni cosa nel mondo ha una sua precisa collocazione. Molto spesso le cose non vanno perché sono fuori posto. Questo vale tanto a livello spaziale, quanto a livello temporale. Il genitore nei confronti dei figli ha una ben precisa collocazione spaziale e temporale:



---> A ---> B ---> C ---> D ---> tempo…

La vita ci richiede da genitori di essere per esempio nel punto “C”. Ciò significa: tener presente che rispetto ai nostri genitori (e di conseguenza ai nostri avi: nonni, bisnonni, etc…) e ai nostri figli siamo collocati in un determinato punto (“C”) che sta dopo i nostri genitori (“B”) e avi (“A”) ma prima dei nostri figli (“D”, “E”…) e che nel tempo questa condizione non cambia.


Si tratta in sostanza di essere sempre consapevoli che noi genitori siamo venuti prima dei nostri figli e che a nostra volta i nostri genitori sono nella stessa condizione. I figli guardano sempre avanti e nel tempo devono fare la loro strada, se si rivolgono a noi (o noi pretendiamo che lo facciano) devono voltarsi e indietreggiare finché noi genitori li sorpassiamo in modo che loro ci vedano. Ma sono loro che devono andare avanti, come noi dovremmo fare nei confronti dei nostri genitori.


La mitologia, le fiabe, sono piene di esempi dove il protagonista deve superare delle prove senza voltarsi, altrimenti perde ciò che ha conquistato ovvero lo spazio percorso verso la meta.


Appena i figli si voltano indietro verso i genitori il loro percorso si inceppa e devono ripartire. Il genitore dovrebbe essere sempre in grado di stare alle spalle del figlio. Questo gli permette di aiutarlo nel bisogno, ma questo rapporto non dovrebbe mai ribaltarsi. Allora un figlio non dovrebbe mai aiutare un genitore o un nonno? In molte culture le cose stanno proprio così: quando un figlio si è reso indipendente lascia la casa dei genitori e va per la sua strada. Nelle fiabe quando il principe ha trovato la principessa e, dopo un certo tempo, decide di tornare dai suoi genitori, prima di partire la principessa lo avverte: io ti aspetterò, ma bada che, se una volta arrivato al castello dei tuoi ti lascerai baciare sulla guancia da tua madre, ti scorderai di me! E poi, quante fatiche per riconquistare il suo principe! Quante incomprensioni nascono nelle famiglie perché i genitori di lui o di lei interferiscono non rispettando la nuova famiglia che si è formata.


Oggi c’è timore di lasciare andare i figli perché i genitori temono per il loro futuro, tanto da non spingerli ad uscire nel mondo credendo di preservarli da una società che offre solo paure ed incertezze. C’è poi la pretesa (a volte espressa, a volte inconscia) che i figli siano il “bastone della vecchiaia” dei genitori e questo è un altro nodo da sciogliere.


Se un aiuto non si nega a nessuno, questo dovrebbe avvenire nella misura e maniera in cui un qualsiasi uomo dovrebbe essere pronto ad aiutare un altro uomo, mentre spesso la realtà è che i figli dedicano buona parte della loro vita a risolvere i problemi dei propri genitori, dando più importanza (per il senso del dovere) a questo che non alla propria famiglia. E poi siamo sempre così sicuri che i nostri genitori abbiano veramente bisogno di noi?


Troppo spesso non ci accorgiamo che, staccandoci da loro, permettiamo loro di evolversi ulteriormente, trovando quelle energie che nemmeno sapevano di avere perché erano messe da parte in nome di un figlio/a che faceva tutto per loro, decideva per loro, permetteva loro di sentirsi vittime di una vecchiaia che inesorabilmente avanza senza via di scampo. Ma la soluzione non sta magari nell’accettare la vecchiaia, nella volontà di superarla il più possibile da soli (o se possibile con il nostro compagno/a), con la nostra autonomia e libertà che da giovani abbiamo tanto voluto?


Manuel Donato, I bambini ci educano. Basta osservarli, sono il nostro specchio.




Ancora in ottobre sono andata ad una conferenza tenuta da Manuel Donato, maestro Waldorf (scuole ad indirizzo steineriano) e musicista, ma dopo un quarto d’ora ho dovuto andarmene, perché il marito mi ha lanciato l'essemmesse-esseoesse per l'allattamento. Così all’uscita mi sono comprata il libro su cui a distanza di mesi sono finalmente approdata.

Donato cambia la prospettiva. Rovescia le altezze dell’educazione. Certo non è l’unico, ma lo fa con una qualità di scrittura apprezzabile. Almeno nei giorni più ordinari e frenetici ci viene spontaneo pensare che sono gli adulti ad educare i piccoli. Personalmente mi sento spesso caricata di questa sensazione con mia figlia Viola. Anche non volendo, l’atmosfera apocalittica di “emergenza educativa” che ci circonda, mi crea quest’ansia di prestazione. Ebbene, per l’autore i primi educatori, forse anche i più efficaci, sono proprio i bambini con il loro dono di specchiare il mondo che li ospita e gli adulti che gli stanno accanto. Oltre che ad aiutarli a crescere, grazie alla carica esplosiva del “bambino specchio” queste persone possono beneficiare a loro volta di un processo di evoluzione e di autoeducazione. Come sempre si tratta di un benefit in omaggio se si trova il tempo, e il ritmo, per vivere sostantivi come ascolto, osservazione, espressione. Dimensioni più lente, ma non per questo relegabili solo alla sfera delle giornate di evasione dagli impegni, che sono ben poche per maturare tali capacità (di accoglienza).

Nella prima parte dedicata a “Collocazione. Ancoraggio. L’eternità ed il tempo. I bisogni dei bambini. Lo spazio. Desiderio. Raccogli ciò che semini”, mi sono imbattuta nella citazione proposta qui sopra che al contempo tiene insieme considerazioni quasi scontate, e per questo difficili da vivere, con riflessioni altrettanto clamorose. Si perché, complice la filosofia grossolana dei “bamboccioni”, tutti concordano – almeno a parole – nel “lasciare andare” i figli, detterebbe invece maggior scompiglio che un figlio si sentisse in dovere di trascurare i suoi genitori in onore di una famiglia che si sta creando o semplicemente per se stesso. Si diceva in tempi non sospetti anche in Genesi 2,24 «Per questo l'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne ».

Senza dubbio le parole di Donato vanno intese prima di tutto simbolicamente, ma anche prese alla lettera non sono poi così malvagie o cariche di poca riconoscenza nei confronti di genitori che si tolgono il pane di bocca per i propri figli. L’autore lascia appunto trapelare che proprio non di solo pane si tratta e che tanto conta la presenza dei genitori nell’infanzia e adolescenza dei figli, tanto vale l’assenza in altre epoche della loro vita. Va da sé che con "presenza" e "assenza" non si intende né un esserci assillante né un mancare assordante. Sgomberando il campo - difficile capire quando è l’ora esatta per farlo – figli e genitori possono abbracciare il nuovo che avanza. Per i figli la maturità delle scelte, l’avviarsi di un progetto di vita, per i genitori il ritrovare il senso e la compiutezza di una coppia che ritorna ad essere “senza figli”. Quel nido d’amore tanto rimpianto e rubato dai vagiti dei neonati che ribussa scomodamente alla porta e che spesso non trova cittadinanza. Quante coppie si ritrovano estranee quando i figli camminano con le loro gambe.

Sulla carta il pensiero di Donato è illuminante, ma poi si scontra con la mentalità diffusa che le fatiche di un genitore anziano sono un affare di famiglia, se non della badante, quando si può permettersela(altrettanto come i nipoti sono un affare di nonni). Se l’Italia non diventa anche “un paese per vecchi” (e non in Parlamento), difficilmente lo potrà essere per i giovani intrappolati a correre pazzi tra figli da seguire e genitori da accudire. Un paese stritolato senza la giusta collocazione per nessuno.

Se dalle parole di Donato si coglie anche la difficoltà pratica che comporta l’essere disadattati  nel nostro albero genealogico, in un film fresco di uscita tutta natalizia si respira la negatività relazionale e il disastro formativo in cui si piomba se l'ordine s'inceppa. E’ eccezionale come talvolta mi capiti di leggere la pagina di un libro che mi rimane riga per riga nel cervello e solo dopo poche ore mi imbatto in un film che me la mette in scena. Fortuna o strane coincidenze, sta di fatto che mi si apre un panorama limpido e lampante di quanto avevo letto. Eh… che film direte?? La bellezza del somaro diretto da Sergio Castellitto e scritto dalla moglie Margaret Mazzantini.

Sulla qualità cinematografica complessiva dell’opera sono ancora in riflessione; a tratti mi ha divertito, a tratti illuminato e purtroppo in altri infastidito. Insomma devo pensarci ancora, ma nel frattempo so per certo che l’idea della Mazzantini che muove il film mi provoca. E’ proprio quella della “collocazione”, del posizionamento confuso delle generazioni e dei ruoli, tutti a spasso e alla ricerca confusa di una felicità a basso prezzo. Ecco che i padri sono amicali e easy (se non con l’amante), le madri isteriche nel dare quotidianamente  perfezione e ideali progressisti ai figli, che a loro volta sono pieni di rabbia che ciascuno incanala in  direzioni diverse. Ai genitori, come suggerisce una preside irosa che si definisce come “una che sta sul territorio”, altro non rimane che accettare queste manifestazioni di cui non sanno darsi spiegazione. E così sullo stesso piano finisce un figlio che gira con un cobra al collo e un’altra che si porta a casa un fidanzato che ha cinquant’anni più di lei. Troppo facile, tutti si aspettano che si tratti semplicemente di un padre che non ha fatto la sua parte e che la figlia ricerchi altrove il senex mancato.

Purtroppo c’è di più: un’intera generazione non credibile che ha creato dei figli disadattati. Ma per la teoria dello “specchio” i non integrati sono allora i genitori che non hanno saputo attivare quel processo di autoeducazione e rimanere alle spalle dei figli che si ritrovano a vendere le canne ai genitori per racimolare qualche soldo in più di paghetta ed altri siparietti che fanno tragicamente sorridere. Castellitto gioca alla farsa e graffia da far uscire sangue. Forse sbaglia più di qualche colpo, ma il film ha sequenze che sanno captare “il popolare” che avvolge l’esistenza di molte famiglie. “Studiate” e non. Figli di contadini o di architetti o di psicanalisti, tutti nella stessa barca di cui si è smarrito il timone. Nel film urlano tutti, genitori e figli. L’ascolto dei padri si è nascosto nella borghesia delle idee, quello dei figli si è smarrito nella vergogna dei propri genitori.

Cronos, Puer, Senex… tutti pezzetti di un unico puzzle da riordinare prima possibile, ma come ricorda Donato nel suo libro, l’ego non sempre lo permette:


“Un essere umano si autoeduca quando, di fronte ad un fatto, ad un evento, si pone delle domande e desidera aumentare la sua conoscenza per trovare delle risposte. Se questa conoscenza l’ha desiderata per amore, cambierà le cose e cambierà l’uomo, altrimenti sarà solo un altro modo per accrescere il proprio ego e le proprie disarmonie”.

lunedì 29 novembre 2010

violapensiero n°26

Venerdì. 16 gennaio. Questo è l’ultimo giorno della mia storia. Sono le otto di mattina, quando entro nel reparto di maternità. Un’ostetrica mi fa un prelievo di sangue, mi dice qualche parola. Con me c’è Antonio. Ma, in effetti, è come se fossi sola. Lo strazio oggi, tutto mio. Solo mio. Resto seduta sul letto, immobile e silenziosa, con un misto di smarrimento, agitazione e paura. Tengo la porta chiusa, non voglio vedere nessuno e non voglio che mi vedano. Fuori, nelle altre camere, ci sono le mamme. Ci sono i bambini. Le altre donne li stringono tra le braccia e li attaccano al seno.



Io il mio bambino non lo avrò.


E’ morto nel mio grembo, chissà perché. Ed ora devono anche strapparmelo via con la forza, perché il mio corpo non si è accorto di nulla e continua, tranquillo, ad essere incinta. Che schifo. Lo volevo anch’io il mio bambino.


Per un caso, l’anestesista manca e io devo aspettare per ore. Anche qui, descrivere è difficile. Sono come sospesa nel vuoto, le lancette dell’orologio scandiscono le ore, lunghe ore di attesa. La mia mente vaga nella sua disperazione. Ogni tanto qualcuno si affaccia alla porta. Sono gentili, davvero. In mattinata arriva anche mia zia, è venuta con il treno. Le sono grata. Nel primo pomeriggio mi attaccano una flebo perché sono digiuna.


Verso le tre, un’infermiera mi prepara. Mi fa spogliare, indossare un camice e sdraiare su una barella.


E’ l’ora. Dio quanto piango. Adesso si che piango, sento le lacrime scorrere sul viso. E non vorrei, eh… Non mi piace per niente piangere davanti agli altri, ma non ce la faccio, non posso trattenere queste maledette lacrime. In fondo sembra tutto un tale incubo. Ma l’attesa non è finita. Sono nel corridoio delle sale parto… che triste, eh?


Poi un’ostetrica molto dolce mi sposta ad aspettare in una camera. Altri minuti, lunghi, interminabili. Ogni volta che sento aprire la porta, credo sia giunto l’anestesista e che con lui sia giunto anche il momento. Che paura. E alla fine, dopo questo lunghissimo, interminabile tormento… arriva.


L’ostetrica mi tiene la mano e mi rassicura. E’ stata molto importante per me. In sala operatoria mi ritrovo a osservare la scena dall’esterno, un vero incubo. C’è il mio medico e lo supplico di “non farmi niente” finché sono sveglia, ma ormai sono troppo esausta per avere paura. Mi fanno l’anestesia, guardo il soffitto bianco e mi addormento. Finalmente, un po’ di pace.


Ora sto sognando, sogno che sono su una slitta, c’è Mattia mi pare, mi chiamano…


Sono viva! E’ tutto finito, e sono viva. Si, perché avevo davvero paura di morire. Non lo so, sarà stupido, ma l’anestesia totale mi faceva parecchia impressione, anche se per me era l’unica scelta possibile. Non sarei sopravvissuta a questo intervento se fossi stata cosciente.


Guardo l’ostetrica e senza pensarci, le parole escono da sole, le chiedo: «Hai visto il mio bambino piccolino?». Mi dice di no, che era troppo piccolo. Certo, non era una domanda proprio pensata, ma è venuta dal cuore. Mi riaccompagnano in camera. Ora è finita. La mia gravidanza è finita. Ma non con un parto, con la nascita, con quelle emozioni indescrivibili e quell’immensa felicità. Nel corridoio del reparto si vedono passare i bimbi neonati, avvolti nelle loro copertine; li portano dalle mamme perché li allattino. Io me ne andrò a mani vuote. Uscirò dal reparto con nessuno, con niente. Eh si, che ho sofferto tanto, me lo meritavo anch’io un bel bambino.


Questi sono i miei pensieri quando verso le undici di sera, il mio ginecologo mi lascia “fuggire” a casa.


Sul cartellino delle dimissioni, quello dove di solito vengono segnate le informazioni sul parto e i dati del bimbo, c’è scritto solo: «Aborto ritenuto all’undicesima settimana».

di Giorgia Cozza, tratto da

Goccia di vita - Alex. Piccola storia di un’attesa spezzata.



Malgrado questa vicenda non mi “sia toccata”, posso dire che ugualmente queste noti dolenti “mi hanno toccata”. Italiano sconnesso, ma rende l'idea. Prima di me, tanti anni fa, avrebbe potuto esserci un’altra sorella. Fratello? Chissà perché mi vien da pensare ad un’altra sorella. Famiglia al femminile? Mesi fa sempre un’altra persona, vicinissima a me in famiglia, avrebbe potuto avere un bimbo. E così pure molte amiche. Troppe. E le stesse, per troppe volte.

Non sono riuscita finora a scrivere di questo dolore. Di queste vite. Di queste attese, come dice Giorgia Cozza, spezzate. Anche se la mia gravidanza nei primissimi mesi è stata attraversata da un alone molto cupo di paura, perché accanto a me persone care avevano appena vissuto il dramma, davvero tragico, di un aborto spontaneo. Ascoltando alcuni racconti e leggendo questo libricino, piccolo piccolo come la vita che racconta, ho capito che le morti sono due. Prima muore il bimbo. E la madre che era cresciuta con lui. Come se la prima non bastasse, purtroppo, il più delle volte, la madre muore anche una seconda volta all’atto del raschiamento.

Le pagine di Goccia di vita, testo prezioso e coraggioso, lo narrano con sincerità. Un diario che prova a dare parola ad un dolore che le madri coinvolte in tali disgrazie affermano come indicibile, difficilmente condivisibile. Anche con il marito. Giorgia Cozza, 37 anni, è giornalista, scrittrice e soprattutto madre di tre bambini. L’aborto spontaneo è arrivato nel 2004, quando già aveva due bambini. L’atrocità con cui si scontra, malgrado avesse comunque dei figli, e che racconta con semplicità, suggerisce anche solo lontanamente il vuoto che si manifesta all’improvviso nell’esistenza di queste “mamme speciali”.

Il parto, anche se ti dona di portati a casa qualcosa, felice espressione della Cozza, è stato per me così intenso da non voler vedere nei giorni successivi nessuna donna che sostenuta dal marito camminava su e giù verso il travaglio. E’ stato così allegoricamente vicino alla morte che non potrò mai liberarmene fino in fondo. Ecco, l’aver raccolto questa sensazione, mi da modo di percepirmi ancora più inutile e incapace di trovare una parola di consolazione quando una nuova mamma ti rivela che il suo bimbo non c’è più.

Cosa puoi dire? Puoi stare ma in silenzio. Forse ascoltare. Ma non dire. Cosa? Frasi che la Cozza passa in rassegna e ne intravede ogni volta una spada senza senso. No, stare e basta. Perché quel bambino ci sarà sempre tra i figli di quella donna, di quella famiglia. Fosse anche l’unico. Lui c’è. Non potrà essere dimenticato. E non potrà essere sostituito.

Oltre a respirare questa convinzione in Goccia di vita o nelle parole di amiche care, ho compreso che si tratta di una tale presenza inestinguibile grazie ad un meccanismo che mi ha illustrato la mia dottoressa (http://www.fabiolamenon.it/). Mi spiegava che le gravidanze dispari prendono la costituzione del padre e le gravidanze pari la costituzione della madre. E che in questa suddivisione, ecco il perché la cito, bisogna contare anche i bambini non nati. E io, di conseguenza, sono la seconda figlia. Anche se mi atteggio da prima figlia, non lo sono e me ne sono resa conto da pochi mesi. E in me, nel mio corpo, rimane traccia di questa assenza. E’ incredibile ed è anche una carezza per questi bimbi e per le loro mamme. E i loro papà? (ricordate, il parto di testa?).
Un’amica mi raccontava che in ospedale hai la possibilità di partecipare ad un gruppo di aiuto, se non ricordo male, solo dai tre aborti in poi. Volgarmente, se non sono in ginocchio, non le vogliamo? Ecco, per questo mi permetto di segnalare Goccia di vita. Può fare compagnia, dare un alfabeto empatico alle mamme che non hanno più sentito il battito. E che hanno pensato che anche il loro cuore si fermasse con il cuore del loro bimbo. Impareggiabile la tenerezza con cui la Cozza racconta di questo bimbo del cielo e degli altri suoi bimbi della terra.

Ma, se posso, questo scritto, così delicato e al contempo feroce, può far bene anche a tutti noi: per amare il dolore degli altri. Perché i bambini sono di tutti e perché, come ho scritto fin dall’inizio di questo blog, in particolare nel Violapensiero n°3, una buona domanda poco frequentata rimane “quando sei diventata madre?”. Forse a queste mamme speciali, per paura di offenderle, di farle ri-piombare nel loro dolore, non gliela farà mai nessuno, ma queste donne sono madri, fosse anche l’unico figlio. Sono madri, perché la vita scorre fin dal primo giorno quando ancora non si vede. E come direbbe Concita De Gregorio, “una madre lo sa”. E perché la donna nasce con questa valenza vitale che la caratterizza oltre la maternità.

giovedì 18 novembre 2010

Violapensiero n° 25

S. Agostino Albignasego - Padova 12 novembre 2010

Mauro, il marito! Al contrario di Arianna, mi conoscete meno ma vi assicuro che anch’io contribuisco in modo significativo alla realizzazione del blog: cucino, tolgo la polvere, lavo i bagni, faccio la spesa … (scherzo!) e  anche per Viola un po’ ho contribuito e continuo a farlo. Mi è stato chiesto di provare a raccontare “Cosa vuol dire essere custode di un grembo fecondo e cosa si prova a vedere germogliare la vita nella propria sposa e casa”.

Il mio raccontarmi ha un’aspettativa troppo alta; non posso certo pensare di potervi dire cosa vuol dire vivere l’attesa e la paternità, anche perché mi sento proprio all’inizio, avete presente, come al nastro di partenza. Anche se pensandoci un attimo, mi sono riscoperto un massimo esperto di cosa vuol dire essere marito di Arianna e neopapà di Viola. Non ho rivali!



Fare spazio

La mia mente rivolta per lo più all’essere pratico, progettuale e preventivo già aveva intrapreso la tangente del lettino, fasciatoio, una parte dell’armadio da dedicare alla nuova creatura, passeggino, ovetto e culla, tutine e coperte… Forse, in questa prima fase, potremmo dire che invece di “fare spazio” ho mentalmente cercato di “riempire” dello spazio; anche spazio non fisico, ma probabilmente più un’idea, un’aspettativa che credevo mi spettasse per far trovare “tutto pronto” alla mamma e a Viola. Invece, per assurdo, la prima cosa che ho imparato all’inizio di questa avventura è stata quella di “fare spazio”.

Liberarmi da una miriade di idee, sentito dire, aspettative, racconti abituali di chi già aveva vissuto delle gravidanze. Non per un fatto di giudizio rivolto agli altri e alle loro esperienze; ma per rispetto di Viola che dal primo momento mi chiedeva di incontrarla, di conoscerla, di ascoltarla. E’ iniziato così uno stile diverso, insieme con Arianna, non più schiavi della frenesia quotidiana ma attenti a ritagliarci del tempo da trascorrere “con la pancia”. Parlare con Viola anche se non la vedevamo e pensare a lei nella nostra vita nel diventare famiglia. Un’avventura sconosciuta per il fatto di essere alla nostra prima esperienza di figli e perché volevamo che mantenesse sempre l’autenticità che appartiene ad ogni essere: anche il piccolo fagiolo nella pancia di Arianna era unico rispetto a tutte le altre pance.

È davvero incredibile la vita. Io e Arianna abbiamo avuto e abbiamo molteplici esperienze in anni di Azione Cattolica, per lo più con l’Azione Cattolica Ragazzi. Il tema dell’Incontro è sempre stato un nodo centrale: fare una delle esperienze più intense di Incontro iniziando con una “bimba” che non vedi, con cui non parli, che non ti risponde e non si “racconta” (tra virgolette) è davvero una forma di iniziazione stupefacente alla vita e all’amore! La vita non necessita di un’ecografia per urlare la sua presenza; talvolta è solo questione di farle spazio per lasciarla entrare.

Essere Argine

Si sa che non è facile cambiare, e per me non lo è stato per nulla. Compreso che dovevo imparare a “fare spazio” fin da subito a Viola, è rimasta la mia indole di pensare anche alle cose più “materiali”. Allo stesso tempo iniziavo a percepire una sorta di “ribellione” in Arianna rispetto al mio ideale di “donna in gravidanza!”. Direte che sono contorto e un po’ lo sono, ma vi spiego meglio. Arianna è una donna estremamente indipendente in alcune cose. Lei ama ed è appassionata del suo lavoro. Nulla la fermerebbe per andare a vedere un film, fare una presentazione, partecipare ad un convegno. Non esistono orari standard per pranzo e cena, a volte si può “saltare”. Si dorme quel che si riesce e poi via … Ecco, immaginatevi la sua faccia quando la prima volta le ho detto: non è il caso di fermarsi un attimo, di NON vedere un film e stare a casa a riposarsi ? Se già ci sono state incomprensioni nel chiederle di rinunciare ad un film, figuriamoci quando le ho detto che magari era il caso di rinunciare a un viaggio o una trasferta al settimo mese… Per me è ancora presto ma voi che avete già esperienza: non è facile togliere una caramella dalle mani di un bambino goloso!

Tutto ciò per introdurre un altro aspetto che io ho maturato come fondamentale nella vita di coppia e nel matrimonio, ma posso dire indispensabile nella gravidanza e penso anche dopo: la capacità di essere argine l’uno per l’altra. Tutto comincia se siamo consapevoli che siamo unici, siamo una coppia unica, stiamo per accogliere una figlia che sarà unica e diversa da ognuno dei suoi genitore e da qualsiasi altra figlia di qualsiasi altro genitore. WOW! E poi dicono che è semplice “essere famiglia tutti insieme”. In realtà l’unicità di ognuno è fonte di ricchezza e crescita ma bisogna imparare a viverla e abitarla.

Essere argine è imparare ad aver cura dell’unicità dell’altro anche quando non lo capiamo, le sue esigenze o aspettative non trovano spazio nel nostro pensiero o modo di vedere le cose. Non intendo essere permissivo, ma ampliare le mie braccia, di racchiudere anche l’essere unica di Arianna e allo stesso tempo, in questo spazio di accoglienza, partendo da lei e non dal mio pensiero, trovare una strada “buona” (non giusto o sbagliato) rispetto a quello che insieme vogliamo costruire. Nella vita di coppia abbiamo messo al centro il matrimonio dove le nostre unicità hanno imparato ad essere arginate, accolte, protette. Una forma di attenzione per vivere l’unicità del singolo come forza ed energia per entrambi.

Ora, arginare Mauro e Arianna mettendo al centro Viola è ancora una volta un’esperienza stupenda, una cura e un rispetto per la piccola ma allo stesso tempo per noi come famiglia. A volte queste cose sembrano scontate, ma avere cura degli altri rispetto ad un bene comune “futuro” è una grande sfida di attenzione, rispetto, gratuità che si impara a donare anche per una bimba che ancora “non è presente” a rimarcare ed esigere le sue cose o “bisogni”. Non nascondo che con Arianna, alcune volte, non c’erano “argini” abbastanza grandi da contenerci e a volte si è andati oltre… ma la certezza della loro presenza aiuta anche quando capita di “superarli”, e il pensiero di “essersi sentiti arginati” è una tenerezza che aiuta notevolmente nella riconciliazione con l’altro.

È difficile pensare di vivere delle esperienze nuove con la consapevolezza di sapere in partenza cosa fare, come, quando, perché … così la gravidanza si manifestata come una nuova strada da percorrere con le nostre insicurezze, le nostre fragilità, i nostri pensieri che in modo naturale nascono e si esprimono. L’essere argine non ti indica subito la strada perfetta o le risposte giuste, ma ti da la possibilità di trovarla rispettando in ogni momento i “partecipanti”, il loro essere, i loro tempi, la loro unicità. L’argine è un interessante filosofia di vita.


Comprendere la Paura

Tutto quello che è nuovo genera “paura”. Fa parte dell’indole umana. Di sicuro una gravidanza non è immune da pensieri di paura, dal sentirsi imperfetti, inadeguati, non pronti; eppure è da un po’ di tempo che le donne restano incinte e danno alla luce nuovi esseri … La mia esperienza di “gravidanza” è di sicuro un’esperienza anche di “paure”, di timori e di imperfezione. Pensavo di dover essere l’uomo di casa, il padre che sa sempre cosa fare, cosa dire, come organizzare le cose… in realtà all’inizio ho perso solo tempo percorrendo questa strada. La paura resta tale finché non si inizia a conoscerla, a comprendere cosa ci fa “paura”. Magari non si supera del tutto, ma un po’ si dissolve e si affievolisce il suo effetto. Come uno “stupido” mi sono reso conto che tutto nasceva nell’avere paura di una cosa che non conoscevo. Allora, mi son detto, “se quest’avventura è nuova e quindi non la conosci, perché la temi in questo modo?”

Confrontandomi con Arianna ho scoperto che la gravidanza è un interruttore che una volta azionato innesca un turbine di paure. Mali fisici, e non, della donna e del feto. Il non essere pronto se succede qualcosa. Il non essere un buon padre per Viola o marito per Arianna. Il cambiamento negli equilibri faticosamente conquistati ( o arginati!) e rimessi subito in discussione da un esserino in arrivo… Le aspettative dalle persone più o meno vicine (e della società). Il fatto di esser messo in secondo piano rispetto alla nuova arrivata. L’aspetto economico un po’ incognito. Trasmettere la giusta educazione e formazione alla bimba. Insomma, a stare attenti e bene in ascolto, ci sono tanti tipi di paure che vengono a bussare in un piccolo angolo del cervello e del cuore subito dopo che tua moglie ti dice: tra poco saremo in tre … Eppure la mia vita aveva raggiunto un certo senso di “sicurezza” che adesso sembra svanire o crollare da centomila “se capita che …” ; “e se succede di …”.

Sapete in verità qual è la grande paura che ho scoperto? Il pensare che Viola non è NOSTRA figlia: è figlia del mondo e noi siamo “solo” un tempo della sua vita. Arriverà il momento di lasciarla andare, di vivere la sua vita e già adesso questa cosa un po’ mi inquieta. Da un’esperienza di cineforum dedicata ai temi della famiglia e genitorialità che Arianna ha appena concluso e che ho seguito partecipandovi con Viola, ho ripensato alla gravidanza e come piccole paure dell’inizio sono poi svanite in modo naturale e come altre sono mutate con il tempo. Ho visualizzato l’importanza di una riflessione tra l’ESSERE e il FARE.

Nella mia natura, come vi ho già detto, è ben forte l’aspetto del fare, dell’avere il controllo delle cose e dell’essere pronto. In definitiva nella gravidanza davo molto peso al “fare” le cose, al “ farò il buon papà”. Questo concetto pratico del fare non lascia spazio all’aspetto umano, alla persona: posso illudermi di ampliare degli “argini” e giustificarmi, dicendomi che “farò domani”, “farò quando sarà più grande”. Mi sono chiesto, invece, cosa volesse dire “essere Mauro” in questo nuovo tempo; essere marito di Arianna, una nuova mamma, e futuro papà. Vivere il concetto dell’ESSERE vuol dire abbracciare anche le sue imperfezioni, accettare di essere ancora in crescita, in cammino.. condividere le mie insicurezze con Arianna e magari scoprirci forti se pensiamo al bagnetto o a cambiare un pannolino piuttosto che sentirci piccoli e indifesi rispetto ad un pianto e alla paura di non saperlo comprendere e risolvere per Viola.

Adesso so che Mauro è stato piccolo, ragazzo, giovane, fidanzato e marito. Adesso inizio ad essere papà e sarà una nuova strada da percorrere e che mi porterà a crescere, cambiare, sbagliare, chiedere e capire. Un giorno forse sarò pure nonno e via dicendo. Allo stesso tempo Viola è chiamata ad essere Viola, ora un piccolo cucciolo ma sempre di più a vivere la sua vita. La paura non va respinta a priori ma accolta nella misura in cui diventa stimolo per crescere, esperienza per maturare; non va temuta come un assoluto né trascurata per superficialità o irresponsabilità. E poi ci sono i nonni, gli amici, le comunità e le relazioni che ci sono vicini e “arginano” le paure.

 

Lasciarsi stupire da Dio

La fede è vita e la gravidanza è un tempo di fede in attesa di una nuova vita. Il progresso non mi toglie la capacità di vivere esperienze forti di fede, piuttosto se perdo la capacità di stupirmi davanti alla vita e alle sue forme, allora si mi sento un po’ piatto e sperduto. La gravidanza è un percorso fisico di cambiamenti e novità sia per la donna sia per l’uomo che scende nel profondo dell’anima di entrambi. La scienza ci insegna i processi di fecondazione, di mutamento delle cellule e la formazione dei tessuti. Allo stesso modo è in grado di spiegare come un bambino sorride, quali centri nervosi vengono stimolati e hanno l’effetto di farlo sorridere. Ancora una volta la scienza in generale mi aiuta a capire come capitano le cose. Ma se tra il “fare” e l’ “essere” ci fermassimo ancora una volta sull’ESSERE?

Un bambino sorride con dei movimenti “meccanici” ma allo stesso tempo comunica con un linguaggio diverso. Ecco, nella mia esperienza, la gravidanza è stata una nuova culla dove assaporare lo stupore pieno di un’opera di Dio. Dove la mia fede ha ricevuto e riceve un’ulteriore forza e dove, chissà perché, non mi sono mai chiesto “come fa Viola a dare un calcetto alla pancia della mamma” ma, invece, mi sono più volte incantato ad aspettare un suo segnale. Viola ha iniziato a riconoscere il mio tocco sulla pancia e mi rispondeva. Adesso passo diverso tempo a guardarla mentre dorme e spesso penso come mi sento “protetto e amato” da un Dio che sa toccarmi così nel profondo anche solo nell’ascoltare il respiro di una bimba che dorme. Non è stupendo?

Eppure Viola, anche nel tempo della pancia, non è simbolo di alcun tipo di potere: economico, politico, culturale, religioso. Non “ha fatto nulla”, non parla, non prende posizioni, non è amica o nemica di qualcuno. E’piccola, fragile, indifesa. Gli organi, i muscoli, le cellule, i nervi, i capelli, le unghie non sono del tutto sviluppati. Eppure Viola è una “forza della natura”. Per lei non senti la fame, il sonno, la stanchezza e potresti muovere le montagne… Viola è Vita, anche lei con la “V” maiuscola! E tutta questa vita, e le relazioni, verbali e non, che si intrecciano, ti prendono da dentro e ti avvolgono in uno stato di amore che non trova una spiegazione scientifica piuttosto che magica.

Dio è amore e la fede è amare e vivere la vita donata da Dio nell’amore. Viola è chimica ma anche tanto, tanto amore e il mio perdermi in questo mi riavvicina a Dio nell’esperienza di una fede tanto semplice quanto pura e intensa.

La gravidanza, un figlio o una figlia, è come un'escursione in montagna; non va impostata con fretta o con la testa occupata da mille pensieri. E’ un’esperienza completa fisica e mentale. C’è una meta da raggiungere ma anche una natura attorno, passo dopo passo, che ci affascina e ci chiede di stupirci con semplicità e fiducia. Viola è amore e gioia per la mamma e il papà e allo stesso tempo per tutti quelli che hanno occhi e cuore per godere della vita e delle meraviglie del Signore.

venerdì 12 novembre 2010

Violapensiero n°24

S. Agostino Albignasego - Padova, 12 novembre 2010

“Sono stata cresciuta nell’amore. Un amore che ho ricevuto senza chiedere, senza aspettare. A cominciare dal latte di mia madre. […] Una creatura aveva iniziato a vivere in me, attraverso di me. Non mi feci tante domande. Fu straordinario, ma semplice e naturale.”


Dalle primissime sequenze

del fim “Io sono con te

di Guido Chiesa

Io sono con te è un film da non perdere. E se l’altra metà del cielo non si offende, in particolare direi che non se lo lascino scappare le donne, le donne gravide e le donne madri. Una carezza di un autore, che con l’aiuto della moglie Nicoletta, - insieme hanno avuto tre figli! - racconta tra sguardi, parole e luoghi la gravidanza e la maternità della “ragazza di Nazareth”. Vi chiederete se c’era ancora qualcosa di questa vicenda che rimaneva da narrare. Ebbene si: sul grande schermo, e non solo, mancavano ancora i sentimenti e le convinzioni pedagogiche di una donna che ha dato di più del suo grembo per l’umanità. In uscita nazionale tra pochi giorni nelle sale, spero possa ricevere l’attenzione del pubblico senza pre-comprensioni agiografiche e ci accompagni dritti dritti fino al Presepio. Una meditazione ispirata, attuale quanto antica, sulla Natività.

Per dedicarvi un pensiero, in questo incontro “Venire alla luce: pance in movimento…”, parto dal film Io sono con te, perché le parole scritte per il suo incipit raccolgono nella semplicità ciò che io ho percepito e immagino possano sentire anche le altre donne che fanno spazio all’Umanità nella loro carne. Mi piace non essere esaustiva; coprire solo alcune traiettorie che il mio cuore ha assunto in gravidanza, perchè accanto a me c’è mio marito che condividerà con voi altre suggestioni che completeranno il panorama di un’esperienza che rimane della nostra coppia e non solo della madre.


“Sono stata cresciuta nell’amore.” Si è fatto largo fin dai primi vagiti della gravidanza un legame prima di tutto con la mia storia, con la madre che mi aveva messo al mondo, cresciuta e amata. Per alcune settimane, forse anche qualche mese, ho nutrito il bisogno di vedere molto meno mia madre per avere la libertà interiore di convocare intimamente tutto il bene che mi aveva voluto finora e anche tutte le insidie che ogni rapporto, anche il più speciale, porta con sé.  Soprattutto nei primi tre mesi che poi sono coincisi anche con una condivisione soltanto di coppia della gravidanza. Un passaggio necessario, forse anche doloroso o comunque che può spaventare, dall’essere figlia all’essere madre.

“Senza chiedere. Senza aspettare.” Ho sentito, come Maria e tante altre madri, che potevo amare questa creatura fin da subito, ancor prima che il mio fisico rivelasse agli altri la sua presenza. Senza farla attendere e senza che fosse lei a chiedermelo dopo la nascita o con i suoi movimenti in pancia. Sentivo crescere una totale disponibilità a dare alla luce questa vita, ma da “protagonista” con tutto il meglio di me che potevo recuperare nel’anima e nel fisico. Un amore incondizionato slegato dal tripudio dei sensi e dei sentimenti che avrei potuto provare incrociando i suoi occhi dopo i nove lunghi mesi. C’è un passaggio del medico e scrittore Jean - Pierre Relier nel libro Amarlo prima che nasca che lo racconta meglio di me.

«La nostra lingua, a suo modo, esprime questa realtà: non diciamo infatti “aspettare” un bambino? E’ anche vero che talvolta si sentono formule meno felici, più prosaiche, perfino più materialiste: “fare” un bambino… Ma l’espressione più usuale, che ne palesa anche il desiderio, è “aspettare un bambino”. Aspettarlo significa in altri termini prepararsi ad accoglierlo, preparargli già un suo posto nel mondo, ma soprattutto nel cuore. E questa attesa, miscela sacra di amore, di desiderio e di speranza, sentimenti condivisi nella coppia, è il crogiolo dove va a prendere posto questo nuovo essere che è esso stesso attesa, e che non sboccerà pienamente se non alimentato da questo amore».
Come il film Io sono con te propone l’idea che Gesù sia stato quello che è stato anche grazie all’amore e alla dedizione che Maria gli ha donato fin dalla permanenza in pancia, e non solo, quindi, per esclusiva disposizione divina che si è manifestata prima di tutto nella capacità materna di questa donna, così io sentivo che c’era un legame di benessere, una crescita che si giocava fin dall’inizio del suo soggiorno nell’utero. Quasi a dire che la capacità delle madri di amare è così autentica, tanto da scorrerci nel sangue e arrivare positivamente alla creatura che alberga nella nostra pancia. E che non c’è nulla da attendere per amarla. Che si tratta dell’unica fretta che forse ha ragione di esistere. Dell’unico stress che dovrebbe essere concesso in gravidanza. Amarla fin da subito.  



“A cominciare dal latte di mia madre.” Il seno è stata la prima dimensione fisica che mi restituiva che qualcosa stava cambiando in me. La corporeità che Dio c’ha donato, l’Incarnazione, è al centro dell’esperienza della gravidanza. Ogni mattina, al risveglio, segnavo in un ideale block notes quali nuove magie, a volte anche difficili da sopportare, la natura stesse portando in me. Fin dall’inizio ho avuto il desiderio di prepararmi come potevo - e un po’ di aiuti ci sono! - all’esperienza dell’allattamento al seno. Sono stata allattata e desideravo poter offrire lo stesso "riparo" anche a nostra figlia. Continuare a darla alla luce anche con questo calice quotidiano. Ho desiderato, immaginato e pregato per riuscire ad allattare Viola. E Mauro mi è stato accanto e ha assecondato come poteva questa idealità. E in questa caparbietà non c’era nessuna convinzione ideologica o bio filosofia. Ascoltavo un suggerimento, una forza spirituale che veniva dalla parte più profonda di me. Da quelle zone che talvolta chiamiamo “viscere”. In noi donne c’è la vita. Scorre a fiumi. E il poterne diventare fonte, e immagine per gli altri di questa sorgente, mi ha accompagnato dolcemente nella gravidanza. Per questo allatto, contro ogni reticenza, ovunque. Con pudore ma senza paura. Perché, citando una performance pittorica bellissima della nostra diocesi, la visione di una madre che allatta rappresenta “i colori del sacro”. Non è una “vetrina” ma una “vetrata” come Chagall già aveva immaginato.
 
“Una creatura aveva iniziato a vivere in me, attraverso di me.” Si, si sente fin da subito. Come nella pancia si fa vivo l’istinto dell’innamoramento, “le farfalle”, così l’esperienza amorosa più grande, portare in sé un bimbo, si intuisce con strane sensazioni nel sacro ventre fin dai primi giorni. Nove mesi in un albergo stagionale che temporaneamente offre tutto quello che può servire a questa vita in via di sviluppo. Mi piace questa specificazione “attraverso di me”, perché da il senso non solo della funzionalità di una donna gravida, ma anche di una vera “ferita” che personalmente mi ha oltrepassato e che mi ha lacerato definitivamente con il parto. Ferita dice le opportunità come pure i “sacrifici”, nel senso più alto della sua etimologia: dal latino “sacrum” e “facere” ovvero “compiere un atto sacro” accettando di perdere un bene (anche la vita?!) per un bene ancora più grande. 
 
“Non mi feci tante domande. Fu straordinario, ma semplice e naturale.” Con Mauro abbiamo desiderato un po’ di silenzio all’inizio non per farci tante domande, ma per ascoltare il toc toc alla porta di Viola. Dare l’opportunità ad un’altra creatura di “vivere la vita” è qualcosa di straordinario. Così meraviglioso che toglie il respiro, che ti ruba l’ossigeno. Avevamo bisogno di stare tra noi due per abbracciare questa semplicità e naturalezza insite nel diventare genitori. C’è da dire che parole come semplicità e naturalezza in realtà oggi sono più ardue che mai da raggiungere. La complessità quotidiana di ritmi e di stili di vita ha rischiato più volte di allontanarci, sia come sposi, sia come genitori fin dai primi mesi della pancia. Ma per Viola siamo riusciti a fare la voce grossa contro lo stress, le cattive compagnie e i modelli insani di vita che davvero stavano diventando insidie capaci di impedirci una gravidanza in buona salute sia fisica che psicologica. E senza fare nessuna violenza emotiva alla piccola Viola. Ecco che riposo, dialogo, ascolto, conoscenza, lettura, confronto e spiritualità sono diventati sostantivi fondamentali dei nostri tre trimestri. E così pure racconto che si è declinato in tanti modi: primo fra tutti il blog, passando per tantissime confidenze con persone care per arrivare a stasera, dove ancora un po’ increduli che ci stiamo raccontando a voi, molto più esperti di noi, poveri “neofiti” su tutto. Neonato. Neogenitori. E anche neofede, perché Viola ha ridato linfa anche ad essa. La vita non va taciuta e da questa certezza troviamo il coraggio per dirci agli altri. Come stasera.

Sulla “neofede” termino con un pensiero che corre verso il Battesimo di Viola che domani vivremo in compagnia delle persone care e della nostra comunità. A questo rito ci avviciniamo con lo spirito che il monaco benedettino Ansel Grün in Il battesimo – Celebrazione della vita descrive così:
«... dobbiamo relazionarci con il bambino in modo tale che egli si senta vestito con una veste bianca, che si senta avvolto nell’amore e possa gioire della sua dignità. Il mio sguardo lo deve coprire invece di denudarlo. Prendere parte ad un rito significa sempre mettersi anche in gioco, sperimentando atteggiamenti comportamentali nuovi, più consoni alla persona umana di quanto non lo siano i nostri vecchi modelli d’azione.»

domenica 7 novembre 2010

violapensiero n°23

Il 25 novembre è la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Quel giorno spero che il nostro Premier abbia il buon gusto di rinchiudersi a Palazzo Grazioli e di non presenziare a nessuna manifestazione.
Di solito parto dalle buone letture e solo in coda mi permetto qualche sconfinamento “politico”, ma le sollecitazioni quotidiane  sono ormai così  vergognose da sovvertire l’ordine dei miei pensieri. Gaber direbbe che l’offesa della donna non è né di destra né di sinistra. Dispiace che i colleghi di partito del nostro premier non dimostrino sofferenza, indignazione e ribellione per l’esagerazione a cui quest’uomo (lo è davvero?) è giunto nei confronti dell’universo femminile e della persona in genere. Mi dispiace, ma mi crea un irrequieto disagio che il presidente del Consiglio del nostro paese contempli la donna – di qualsiasi età! - come passatempo serale corporeo per reggere lo stress di una giornata di lavoro. Le sue Ministre dove sono? C’è da non dormirci di notte.
Sembra di essere in una monarchia dove il re viene soddisfatto nei suoi vizietti e gli si consente di esprimersi nel peggiore dei modi. Il suo disporre della donna come terapia che gli spetta di diritto dopo il travaglio quotidiano è anch'essa una violenza frutto della peggiore ignoranza. La violenza della mentalità. Quella più difficile da sconfiggere che ci confina nella sfera degli oggetti. Non si può rimanere in questo gelo mentale senza via d’uscita. Sogno per mia figlia, e per tutte noi, un paese in cui le persone siano rispettate in primis dal premier in modo esemplare. E in cui la donna sia davvero un valore dalle molteplici dimensioni e non un servizio serale che non approfondisco oltre. Pago le tasse e faccio parte del PIL, come direbbe Zaia…, anche per per vivere in una comunità accogliente e sana, capace di dare un futuro alle giovani generazioni fondato sulla bellezza e non su l’omofobia o la pornografia. E non mi si dica che le sue sono battute. Non fa il comico di professione e se è malato, è tempo che se ne prenda atto con relative conseguenze. Non si tratta più solo di resistere nel quotidiano. E’ tempo di una protesta al femminile oltre ogni appartenenza politica. Mi chiedo se come donne non sia possibile manifestare quanto il suo pensiero e comportamento ci offenda nel profondo. Sono disponibile a recarmi a Roma con carrozzina al seguito.

Cosa penseranno le adolescenti? Noi abbiamo avuto chi si è preoccupato per noi. Forse non stiamo facendo abbastanza per queste giovani donne. C’è bisogno di trasmettere da una generazione all’altra l’intelligenza e la sapienza femminile contro la stoltezza che ci piove addosso dall’alto. Anche per questo ho deciso di tesserare mia figlia - di zero anni! – al Centro Italiano Femminile. Avendole fatto un account di posta elettronica ancora all’ottavo mese, a due mesi di vita penso di poterla iscrivere anche ad un’associazione che non si stanca di promuovere la donna, e la persona in genere, oltre ogni discriminazione. Voglio appuntare la tessera sulla carrozzina come simbolo di una protesta verso un paese che guarda al passato. Non mi dispiacerebbe che la Chiesa, ai vertici, esprimesse con forza quanto questo pensiero barbarico sulla donna e sulla persona sia lontano da un autentico Cristianesimo. Ci sono molti modi di bestemmiare e il premier, su questo fronte, sta mostrando molta creatività. Spero che non sia anche stavolta non si debba “contestualizzare”. Quando mia figlia sarà in grado di esprimersi e agire, potrà scegliere personalmente le sue associazioni. Per ora, come donna e come madre, mi sento chiamata a renderla parte di una comunità in cui si respira il delicato ed elegante profumo del femminile che continua a lottare e a pensare.


Per non lasciarci con un post degno di Lavinia e il suo anello magico (Violapensiero n°19), e ancora sarebbe troppo poco, opto per uno squisito contraltare maschile che di delicatezza ne ha da vendere: Alessandro D’Avenia. Professore, scrittore, sceneggiatore e blogger (http://www.profduepuntozero.it/).
Con il suo primo romanzo Bianca come il latte rossa come il sangue ha raggiunto un notevole successo. Da mesi un caro amico milanese m’invitava a leggerlo, ma non riuscivo a trovare il tempo giusto per quest’opera. Nello scorso week end, il primo di vero riposo dopo tanti mesi, ho ascoltato il suo consiglio e mi sono smarrita per un giorno tra i colori di D’Avenia. Ritornavo nella realtà solo per nutrire, cambiare e coccolare Viola, ma poi mi rigettavo tra le pagine del romanzo per stare con Leo, Silvia, Beatrice e il prof. Sognatore. Un Leo degno di Leopardi più che di Leonardo. Una Silvia e una Beatrice discendenti legittime di illustri antenate letterarie. Un libro ora zeppo di pieghe negli angoli, tante sono le pagine che mi hanno toccato nel profondo riavvicinandomi all’adolescenza e alla giovinezza senza la morbosità di Tre metri sopra il cielo. Un romanzo, a parere di molti insegnanti, che ha conquistato adolescenti e giovani, ma che ha la capacità di calamitare anche gli adulti. Una scrittura fresca e impastata al contesto mediale e digitale che i giovani vivono con assoluta naturalezza.



“Quando non sai rispondere a una domanda c'è una sola soluzione: Wikipedia. Su Wikipedia però non c'è scritto se è possibile che Silvia per me sia più di un'amica; la domanda mi tormenta come le cicale estive e non riesco a scacciarla.”

Con l’imponenza che ogni anima porta con sé, nel suo romanzo D’Avenia scorre temi cari all’esistenza. Sogni, progetti, amore, amicizia, noia, morte, educazione, scuola, genitorialità, insegnamento, dolore, perdita, scelte, spiritualità... Senza moralismi ma con una forte tensione poetica tinge la sua opera di colori emotivi che oltrepassano le parole per aprire finestre immaginarie sui sentimenti che il protagonista sente crescere in sé. Destreggiandosi tra le fratture interiori che i giovani vivono, trova lo spazio per offrire modelli adulti positivi - imperfetti ma con qualcosa da consegnare - e per il trascendente che cambia la percezione delle loro esperienze. Si coglie che l’autore conosce il mondo che narra. Senza derive sociologiche dipana una storia che innamora e che, pagina dopo pagina, costringe a stupirsi su quanto la vita sia così nobile e ordinaria allo stesso tempo.

“Ci sono due modi per guardare il volto di una persona. Uno è guardare gli occhi come parte del volto. L'altro è guardare gli occhi e basta, come se fossero il volto. È una di quelle cose che mettono paura quando le fai. Perché gli occhi sono la vita in miniatura. Bianchi intorno, come il nulla in cui galleggia la vita, l'iride colorata, come la varietà imprevedibile che la caratterizza, sino a tuffarsi nel nero della pupilla che tutto inghiotte, come un pozzo oscuro senza colore e senza fondo.”

Un caro amico giorni fa mi scriveva che i suoi figli stanno vivendo un allontanamento dalla fede, da una spiritualità che si manifesta anche nella partecipazione ai riti. Nel descrivere questa separazione intuiva che «chi ha parlato loro di Dio, chi lo ha reso palese o - viceversa - lo ha nascosto, non ha saputo - per il momento - accendere le loro menti e le loro anime. Arriverà il loro momento, [...] ma certamente chi sente la responsabilità di trasferire ai giovani quel che ha ricevuto deve cominciare a porsi MOLTO seriamente il problema del linguaggio da usare, dei contenuti da presentare ed ancor più della CREDIBILITA' ed AUTENTICITA' di coloro che parlano.... Stiamo attraversando un momento difficile ed io con pochi ma convinti amici non ci arrendiamo».

Ciò che spaventa non è certamente l’allontanamento dal rito, pratica talvolta necessaria per tornare a risentire la sete di un tempo davvero celebrante, ma la difficoltà che le giovani generazioni nutrono verso la sfera spirituale dirimpettaia di una consapevolezza interiore che gli impedisce di perdersi nel diventare grandi. Senza nessun intento di proselitismo, D’Avenia convoca i suoi lettori a fare i conti con Dio, l’Amore e la Morte. Una Trinità, forse un po' meno ardua di quella tradizionale, ma che eleva i giovani e meno giovani a guardarsi dentro e a mettere in ordine le cose che contano. Come ricorda l'autore, dai passaggi più duri dell'esistenza scaturisce il meglio di noi: “Proprio quando ci sentiamo più poveri la vita, come una madre, sta cucendo per noi il vestito più bello.”

Se fossi un insegnante o un educatore non mi perderei l’opportunità di leggerlo insieme ai giovani. A scuola come in un reading improvvisato in un bar. Situazioni informali come lo è Bianca come il latte rossa come il sangue. Per tornare più fragranti. Per abbracciare i nostri sogni e riconoscere i colori delle emozioni che ci attanagliano o ci fecondano. Eccone un ultimo assaggio, sperando di avervi messo appetito.

“Ogni cosa è un colore. Ogni emozione è un colore. Il silenzio è bianco. Il bianco infatti è un colore che non sopporto: non ha confini. Passare una notte in bianco, andare in bianco, alzare bandiera bianca, lasciare il foglio bianco, avere un capello bianco... Anzi, il bianco non è neanche un colore. Non è niente, come il silenzio. Un niente senza parole e senza musica. In silenzio: in bianco. Non so rimanere in silenzio o da solo, che è lo stesso. Mi viene un dolore poco sopra la pancia o dentro la pancia, non l'ho mai capito, da costringermi a inforcare il mio bat-cinquantino, ormai a pezzi e senza freni (quando mi deciderò a farlo riparare?), e girare a caso fissando negli occhi le ragazze che incontro per sapere che non sono solo. Se qualcuna mi guarda io esisto. Ma perché sono così? Perdo il controllo. Non so stare solo. Ho bisogno di... manco io so di cosa. Che rabbia! Ho un iPod in compenso. Eh sì, perché quando esci e sai che ti aspetta una giornata al sapore di asfalto polveroso a scuola e poi un tunnel di noia tra compiti, genitori e cane e poi di nuovo, fino a che morte non vi separi, solo la colonna sonora giusta può salvarti. Ti sbatti due auricolari nelle orecchie ed entri in un'altra dimensione. Entri nell'emozione del colore giusto.”


giovedì 28 ottobre 2010

violapensiero n°22


“Il cuore è sempre stato associato alle nostre emozioni, come in “cuor contento”, “cuore infranto”, “buon cuore”, eccetera. La cultura occidentale ha in buona parte ritenuto che le emozioni fossero superflue, una faccenda di ormoni femminili instabili o un segno di condizioni patologiche. La nostra società tollera con indulgenza che si parli fino alla nausea dei mali del mondo, da tutte le angolature, e che ci si consideri informati e intelligenti a farlo; ma se qualcuno è sinceramente euforico e felice, o profondamente triste e arrabbiato, e lo esprime, viene considerato una “Pollyanna”, poco realistico, disinformato o semplicemente “fuori controllo”.
A causa di questo stigma sulle emozioni, tendiamo a scoraggiare il normale sviluppo emotivo dei nostri figli. Negli stadi precoci dello sviluppo emotivo i bambini sono acutamente consapevoli delle emozioni dei loro genitori, e li mimano fisicamente per imparare. Questo processo si manifesta in modo goffo e grossolano sotto forma di bizze o di un’esagerata eccitazione ed entusiasmo, che può venire etichettata come iperattività. Se si consente al bambino di esplorare la sua emotività, questi impara come sentire ed esprimere responsabilmente le emozioni, impara a fidarsi dei segnali del proprio corpo, delle sue reazioni di cuore e “di pancia” che, come dimostrano le ricerche, in genere sono esatte. Questo sviluppo dona al bambino, e alla persona, una vita ricca e appassionata e la capacità di connettersi profondamente e intimamente con gli altri e con il mondo.
Le emozioni guidano ogni parte della nostra realtà, strutturano la nostra intelligenza, la nostra capacità di riflettere a un alto livello formale, e creano nuove ed interessanti cose e idee. Le emozioni generate dall’insieme cuore-amigdala in connessione con i lobi frontali forniscono intuizioni che producono e simpatia, altruismo, decisioni chiare e azioni corrette. L’empatia è una delle emozioni più importanti che si possano sviluppare all’interno della struttura di una casa, un vicinato, una società e una comunità globale amorevole. L’empatia che fornisce uno specchio per divenire consapevole dei nostri sentimenti e connetterci in modo più intimo con noi stessi attraverso gli altri. Più una persona riceverà empatia, più diventerà “integra” ed empatica, e più la sua funzione cerebrale sarà coerente. I bambini più empatici hanno migliori risultati ai test SAT, del quoziente d’intelligenza e ai test scolastici, rispetto a coloro che non hanno sviluppato l’empatia.
Oggi nella nostra società sono in aumento le emozioni immature ed estreme. L’antropologo Larry Peters ritiene che questo abbia a che fare con la mancanza di un forte contesto familiare e di riti di passaggio significativi. I riti di passaggio sono una componente integrale di altre culture, e permettono all’intera famiglia di riconoscere e celebrare periodicamente il bambino come una persona importante e reale. Peters pensa che queste emozioni estreme siano un modo per comunicare l’angoscia e “un tentativo di autoguarigione in una cultura deprivata di ogni contesto integrativo spirituale e rituale”. Le emozioni mature ci permettono di provare compassione, altruismo, empatia e amore. Per me, avere il controllo significa consentire ed esprimere emotivamente tutti gli aspetti di ciò che sono autenticamente, e celebrarli in modo responsabile (rispondendo ad essi). Da bambini (già in utero) cominciamo a percepire la sicurezza o le minacce del nostro mondo, assimiliamo un insieme di convinzioni e matrici di pensiero, e quindi costruiamo la nostra realtà. Via via che costruiamo un’abitudine alla coerenza, cominciamo a capire che cosa significa “essere” un potenziale illimitato, profondamente connesso con ogni cosa; e la vita si espande verso una magnifica avventura d’amore...”

Carla Hannaford, Risvegliare il cuore bambino
Come stimolare la crescita felice del bambino
attraverso il dialogo, il gioco e il contatto con la natura


Questo libro, che mi preme far conoscere, ha la stessa età di Viola. Fresco fresco… Sfornato a settembre 2010 è una delle ultime chicche delle edizioni AAm Terra Nuova. Carla Hannaford è biologa e insegnante americana che vive tra le Hawaii e il Montana. E’ consulente nelle scuole elementari e medie per bambini con difficoltà di apprendimento. Dalla citazione penserete ad una pubblicazione “cuore e amore” e invece è uno dei pochi libri scientifici che ho letto nella mia vita. Solo alcune pagine scorrono veloci come quella scelta per violapensiero. Altre sono molto dense di concetti scientifici che potrebbero interessare qualsiasi adulto. A partire dal desiderio di proteggere il bimbo dallo stress materno (fin dall’utero), dai traumi, dalle fonti esterne di inquinamento e di stimolarne i sensi, il linguaggio attraverso la natura, la musica, il gioco, il contatto fisico, l'autrice giunge a spiegare come lo stress modifichi in primis l’organismo e la sua funzionalità nell’adulto e come le persone si mettano in comunicazione attraverso la mente ma anche attraverso il cuore. Le onde che scaturiscono da questo organo straordinario. Nell’accompagnare il bambino in questa esperienza, l’adulto può ritrovare un senso di appartenenza e una sensazione di armonia e sicurezza con il mondo circostanze. Esercizi fisici e illustrazioni scientifiche, meditazioni e citazioni. Un libro difficile da incasellare in un genere con traiettorie di pensiero alternativo ma con un grande senso di concretezza e di sperimentazione. Nell’educare il bambino a non perdere il suo “genio”, l’adulto risveglia il suo cuore bambino; dialoga con l’infanzia che riposa nella sua personalità e si riappropria di uno sguardo di minor pre-giudizio sul mondo. Ritrova la creatività che per l’autrice nasce da un luogo di giocosa spontaneità fuori dal tempo, dove non vi è autoconsapevolezza né timore di fallimento. Un flusso. Una condizione nella corrente momentanea della coscienza.
Due film recentemente mi hanno fatto riflettere sulla comunicazione che avviene a partire dal cuore. E che Carla Hannaford descrive nel dettaglio del suo libro gettando un orizzonte scientifico e non solo filosofico.
Dicevamo due film. Agli antipodi. Un film in cui si piange. Un film in cui si ride.
Un Pupi Avati. Si perché ne sforna così tanti, che sembrano i capi della collezione invernale di uno stilista di cui arriverà anche la collezione primaverile. Uno che in passato al cuore ha pure dedicato un film: Il cuore altrove. E che nel suo ultimo Una sconfinata giovinezza mostra proprio come la nostra vita sia fatta di mente e cuore e cosa capiti quando rimane solo il secondo. Come un bravissimo Fabrizio Bentivoglio, malato, sperso “altrove”, ritrovi in toto quel “cuore bambino” che lo porta ad essere il figlio che lui e la moglie non hanno mai avuto, malgrado l’avessero desiderato così tanto. Una Francesca Neri, contesa tra il relazionarsi a tratti con la mente, a tratti con il cuore, che rimane in bilico tra il difendersi da questo essere primitivo, infantile e l’accudire finalmente il bimbo che non ha mai portato in grembo.
E un’animazione. Geniale. Divertimento senza intervalli. Cattivissimo me che ricorda, rischiando la banalità ma superando la sfida a pieni voti, come i bambini si avvicinino agli adulti senza nessun interfaccia. Con – tatto. E come percepiscano, oltre le bucce della mente che imprigionano i nostri corpi, che ci siano delle onde più che positive che si diramano dal nostre cuore. Come una mummia che vuole srotolarsi dalle bende e fuggire dalla Piramide. Così le tre inseparabili orfanelle, Margo-Edith-Agnes, svestono Gru dalla sua cattiveria e lo rimettono in dialogo con il piccolino che sopravvive nello spilungone. Prima viveva senza cuore. Ora tre cuori bambino lo riportano al centro di se stesso.
Se le emozioni non trovano sfogo, oer la Hannaford, l’individuo impara precocemente a costruire la sua armatura. L’uso sfrenato di questo scudo lo allontana dal suo corpo e interiorità. I bambini invece ci educano ad ascoltare le emozioni. Amare i bambini, è imparare a conoscere e ad amare se stessi. E’ tornare a comunicare con il cuore. Il calcolo della mente trova il poderoso argine della spontaneità del cuore.

Se avete voglia, buona lettura o buona visione!