significato blog

Vieni a trovarci sul nuovo sito www.violadelpensiero.it


venerdì 12 novembre 2010

Violapensiero n°24

S. Agostino Albignasego - Padova, 12 novembre 2010

“Sono stata cresciuta nell’amore. Un amore che ho ricevuto senza chiedere, senza aspettare. A cominciare dal latte di mia madre. […] Una creatura aveva iniziato a vivere in me, attraverso di me. Non mi feci tante domande. Fu straordinario, ma semplice e naturale.”


Dalle primissime sequenze

del fim “Io sono con te

di Guido Chiesa

Io sono con te è un film da non perdere. E se l’altra metà del cielo non si offende, in particolare direi che non se lo lascino scappare le donne, le donne gravide e le donne madri. Una carezza di un autore, che con l’aiuto della moglie Nicoletta, - insieme hanno avuto tre figli! - racconta tra sguardi, parole e luoghi la gravidanza e la maternità della “ragazza di Nazareth”. Vi chiederete se c’era ancora qualcosa di questa vicenda che rimaneva da narrare. Ebbene si: sul grande schermo, e non solo, mancavano ancora i sentimenti e le convinzioni pedagogiche di una donna che ha dato di più del suo grembo per l’umanità. In uscita nazionale tra pochi giorni nelle sale, spero possa ricevere l’attenzione del pubblico senza pre-comprensioni agiografiche e ci accompagni dritti dritti fino al Presepio. Una meditazione ispirata, attuale quanto antica, sulla Natività.

Per dedicarvi un pensiero, in questo incontro “Venire alla luce: pance in movimento…”, parto dal film Io sono con te, perché le parole scritte per il suo incipit raccolgono nella semplicità ciò che io ho percepito e immagino possano sentire anche le altre donne che fanno spazio all’Umanità nella loro carne. Mi piace non essere esaustiva; coprire solo alcune traiettorie che il mio cuore ha assunto in gravidanza, perchè accanto a me c’è mio marito che condividerà con voi altre suggestioni che completeranno il panorama di un’esperienza che rimane della nostra coppia e non solo della madre.


“Sono stata cresciuta nell’amore.” Si è fatto largo fin dai primi vagiti della gravidanza un legame prima di tutto con la mia storia, con la madre che mi aveva messo al mondo, cresciuta e amata. Per alcune settimane, forse anche qualche mese, ho nutrito il bisogno di vedere molto meno mia madre per avere la libertà interiore di convocare intimamente tutto il bene che mi aveva voluto finora e anche tutte le insidie che ogni rapporto, anche il più speciale, porta con sé.  Soprattutto nei primi tre mesi che poi sono coincisi anche con una condivisione soltanto di coppia della gravidanza. Un passaggio necessario, forse anche doloroso o comunque che può spaventare, dall’essere figlia all’essere madre.

“Senza chiedere. Senza aspettare.” Ho sentito, come Maria e tante altre madri, che potevo amare questa creatura fin da subito, ancor prima che il mio fisico rivelasse agli altri la sua presenza. Senza farla attendere e senza che fosse lei a chiedermelo dopo la nascita o con i suoi movimenti in pancia. Sentivo crescere una totale disponibilità a dare alla luce questa vita, ma da “protagonista” con tutto il meglio di me che potevo recuperare nel’anima e nel fisico. Un amore incondizionato slegato dal tripudio dei sensi e dei sentimenti che avrei potuto provare incrociando i suoi occhi dopo i nove lunghi mesi. C’è un passaggio del medico e scrittore Jean - Pierre Relier nel libro Amarlo prima che nasca che lo racconta meglio di me.

«La nostra lingua, a suo modo, esprime questa realtà: non diciamo infatti “aspettare” un bambino? E’ anche vero che talvolta si sentono formule meno felici, più prosaiche, perfino più materialiste: “fare” un bambino… Ma l’espressione più usuale, che ne palesa anche il desiderio, è “aspettare un bambino”. Aspettarlo significa in altri termini prepararsi ad accoglierlo, preparargli già un suo posto nel mondo, ma soprattutto nel cuore. E questa attesa, miscela sacra di amore, di desiderio e di speranza, sentimenti condivisi nella coppia, è il crogiolo dove va a prendere posto questo nuovo essere che è esso stesso attesa, e che non sboccerà pienamente se non alimentato da questo amore».
Come il film Io sono con te propone l’idea che Gesù sia stato quello che è stato anche grazie all’amore e alla dedizione che Maria gli ha donato fin dalla permanenza in pancia, e non solo, quindi, per esclusiva disposizione divina che si è manifestata prima di tutto nella capacità materna di questa donna, così io sentivo che c’era un legame di benessere, una crescita che si giocava fin dall’inizio del suo soggiorno nell’utero. Quasi a dire che la capacità delle madri di amare è così autentica, tanto da scorrerci nel sangue e arrivare positivamente alla creatura che alberga nella nostra pancia. E che non c’è nulla da attendere per amarla. Che si tratta dell’unica fretta che forse ha ragione di esistere. Dell’unico stress che dovrebbe essere concesso in gravidanza. Amarla fin da subito.  



“A cominciare dal latte di mia madre.” Il seno è stata la prima dimensione fisica che mi restituiva che qualcosa stava cambiando in me. La corporeità che Dio c’ha donato, l’Incarnazione, è al centro dell’esperienza della gravidanza. Ogni mattina, al risveglio, segnavo in un ideale block notes quali nuove magie, a volte anche difficili da sopportare, la natura stesse portando in me. Fin dall’inizio ho avuto il desiderio di prepararmi come potevo - e un po’ di aiuti ci sono! - all’esperienza dell’allattamento al seno. Sono stata allattata e desideravo poter offrire lo stesso "riparo" anche a nostra figlia. Continuare a darla alla luce anche con questo calice quotidiano. Ho desiderato, immaginato e pregato per riuscire ad allattare Viola. E Mauro mi è stato accanto e ha assecondato come poteva questa idealità. E in questa caparbietà non c’era nessuna convinzione ideologica o bio filosofia. Ascoltavo un suggerimento, una forza spirituale che veniva dalla parte più profonda di me. Da quelle zone che talvolta chiamiamo “viscere”. In noi donne c’è la vita. Scorre a fiumi. E il poterne diventare fonte, e immagine per gli altri di questa sorgente, mi ha accompagnato dolcemente nella gravidanza. Per questo allatto, contro ogni reticenza, ovunque. Con pudore ma senza paura. Perché, citando una performance pittorica bellissima della nostra diocesi, la visione di una madre che allatta rappresenta “i colori del sacro”. Non è una “vetrina” ma una “vetrata” come Chagall già aveva immaginato.
 
“Una creatura aveva iniziato a vivere in me, attraverso di me.” Si, si sente fin da subito. Come nella pancia si fa vivo l’istinto dell’innamoramento, “le farfalle”, così l’esperienza amorosa più grande, portare in sé un bimbo, si intuisce con strane sensazioni nel sacro ventre fin dai primi giorni. Nove mesi in un albergo stagionale che temporaneamente offre tutto quello che può servire a questa vita in via di sviluppo. Mi piace questa specificazione “attraverso di me”, perché da il senso non solo della funzionalità di una donna gravida, ma anche di una vera “ferita” che personalmente mi ha oltrepassato e che mi ha lacerato definitivamente con il parto. Ferita dice le opportunità come pure i “sacrifici”, nel senso più alto della sua etimologia: dal latino “sacrum” e “facere” ovvero “compiere un atto sacro” accettando di perdere un bene (anche la vita?!) per un bene ancora più grande. 
 
“Non mi feci tante domande. Fu straordinario, ma semplice e naturale.” Con Mauro abbiamo desiderato un po’ di silenzio all’inizio non per farci tante domande, ma per ascoltare il toc toc alla porta di Viola. Dare l’opportunità ad un’altra creatura di “vivere la vita” è qualcosa di straordinario. Così meraviglioso che toglie il respiro, che ti ruba l’ossigeno. Avevamo bisogno di stare tra noi due per abbracciare questa semplicità e naturalezza insite nel diventare genitori. C’è da dire che parole come semplicità e naturalezza in realtà oggi sono più ardue che mai da raggiungere. La complessità quotidiana di ritmi e di stili di vita ha rischiato più volte di allontanarci, sia come sposi, sia come genitori fin dai primi mesi della pancia. Ma per Viola siamo riusciti a fare la voce grossa contro lo stress, le cattive compagnie e i modelli insani di vita che davvero stavano diventando insidie capaci di impedirci una gravidanza in buona salute sia fisica che psicologica. E senza fare nessuna violenza emotiva alla piccola Viola. Ecco che riposo, dialogo, ascolto, conoscenza, lettura, confronto e spiritualità sono diventati sostantivi fondamentali dei nostri tre trimestri. E così pure racconto che si è declinato in tanti modi: primo fra tutti il blog, passando per tantissime confidenze con persone care per arrivare a stasera, dove ancora un po’ increduli che ci stiamo raccontando a voi, molto più esperti di noi, poveri “neofiti” su tutto. Neonato. Neogenitori. E anche neofede, perché Viola ha ridato linfa anche ad essa. La vita non va taciuta e da questa certezza troviamo il coraggio per dirci agli altri. Come stasera.

Sulla “neofede” termino con un pensiero che corre verso il Battesimo di Viola che domani vivremo in compagnia delle persone care e della nostra comunità. A questo rito ci avviciniamo con lo spirito che il monaco benedettino Ansel Grün in Il battesimo – Celebrazione della vita descrive così:
«... dobbiamo relazionarci con il bambino in modo tale che egli si senta vestito con una veste bianca, che si senta avvolto nell’amore e possa gioire della sua dignità. Il mio sguardo lo deve coprire invece di denudarlo. Prendere parte ad un rito significa sempre mettersi anche in gioco, sperimentando atteggiamenti comportamentali nuovi, più consoni alla persona umana di quanto non lo siano i nostri vecchi modelli d’azione.»

domenica 7 novembre 2010

violapensiero n°23

Il 25 novembre è la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Quel giorno spero che il nostro Premier abbia il buon gusto di rinchiudersi a Palazzo Grazioli e di non presenziare a nessuna manifestazione.
Di solito parto dalle buone letture e solo in coda mi permetto qualche sconfinamento “politico”, ma le sollecitazioni quotidiane  sono ormai così  vergognose da sovvertire l’ordine dei miei pensieri. Gaber direbbe che l’offesa della donna non è né di destra né di sinistra. Dispiace che i colleghi di partito del nostro premier non dimostrino sofferenza, indignazione e ribellione per l’esagerazione a cui quest’uomo (lo è davvero?) è giunto nei confronti dell’universo femminile e della persona in genere. Mi dispiace, ma mi crea un irrequieto disagio che il presidente del Consiglio del nostro paese contempli la donna – di qualsiasi età! - come passatempo serale corporeo per reggere lo stress di una giornata di lavoro. Le sue Ministre dove sono? C’è da non dormirci di notte.
Sembra di essere in una monarchia dove il re viene soddisfatto nei suoi vizietti e gli si consente di esprimersi nel peggiore dei modi. Il suo disporre della donna come terapia che gli spetta di diritto dopo il travaglio quotidiano è anch'essa una violenza frutto della peggiore ignoranza. La violenza della mentalità. Quella più difficile da sconfiggere che ci confina nella sfera degli oggetti. Non si può rimanere in questo gelo mentale senza via d’uscita. Sogno per mia figlia, e per tutte noi, un paese in cui le persone siano rispettate in primis dal premier in modo esemplare. E in cui la donna sia davvero un valore dalle molteplici dimensioni e non un servizio serale che non approfondisco oltre. Pago le tasse e faccio parte del PIL, come direbbe Zaia…, anche per per vivere in una comunità accogliente e sana, capace di dare un futuro alle giovani generazioni fondato sulla bellezza e non su l’omofobia o la pornografia. E non mi si dica che le sue sono battute. Non fa il comico di professione e se è malato, è tempo che se ne prenda atto con relative conseguenze. Non si tratta più solo di resistere nel quotidiano. E’ tempo di una protesta al femminile oltre ogni appartenenza politica. Mi chiedo se come donne non sia possibile manifestare quanto il suo pensiero e comportamento ci offenda nel profondo. Sono disponibile a recarmi a Roma con carrozzina al seguito.

Cosa penseranno le adolescenti? Noi abbiamo avuto chi si è preoccupato per noi. Forse non stiamo facendo abbastanza per queste giovani donne. C’è bisogno di trasmettere da una generazione all’altra l’intelligenza e la sapienza femminile contro la stoltezza che ci piove addosso dall’alto. Anche per questo ho deciso di tesserare mia figlia - di zero anni! – al Centro Italiano Femminile. Avendole fatto un account di posta elettronica ancora all’ottavo mese, a due mesi di vita penso di poterla iscrivere anche ad un’associazione che non si stanca di promuovere la donna, e la persona in genere, oltre ogni discriminazione. Voglio appuntare la tessera sulla carrozzina come simbolo di una protesta verso un paese che guarda al passato. Non mi dispiacerebbe che la Chiesa, ai vertici, esprimesse con forza quanto questo pensiero barbarico sulla donna e sulla persona sia lontano da un autentico Cristianesimo. Ci sono molti modi di bestemmiare e il premier, su questo fronte, sta mostrando molta creatività. Spero che non sia anche stavolta non si debba “contestualizzare”. Quando mia figlia sarà in grado di esprimersi e agire, potrà scegliere personalmente le sue associazioni. Per ora, come donna e come madre, mi sento chiamata a renderla parte di una comunità in cui si respira il delicato ed elegante profumo del femminile che continua a lottare e a pensare.


Per non lasciarci con un post degno di Lavinia e il suo anello magico (Violapensiero n°19), e ancora sarebbe troppo poco, opto per uno squisito contraltare maschile che di delicatezza ne ha da vendere: Alessandro D’Avenia. Professore, scrittore, sceneggiatore e blogger (http://www.profduepuntozero.it/).
Con il suo primo romanzo Bianca come il latte rossa come il sangue ha raggiunto un notevole successo. Da mesi un caro amico milanese m’invitava a leggerlo, ma non riuscivo a trovare il tempo giusto per quest’opera. Nello scorso week end, il primo di vero riposo dopo tanti mesi, ho ascoltato il suo consiglio e mi sono smarrita per un giorno tra i colori di D’Avenia. Ritornavo nella realtà solo per nutrire, cambiare e coccolare Viola, ma poi mi rigettavo tra le pagine del romanzo per stare con Leo, Silvia, Beatrice e il prof. Sognatore. Un Leo degno di Leopardi più che di Leonardo. Una Silvia e una Beatrice discendenti legittime di illustri antenate letterarie. Un libro ora zeppo di pieghe negli angoli, tante sono le pagine che mi hanno toccato nel profondo riavvicinandomi all’adolescenza e alla giovinezza senza la morbosità di Tre metri sopra il cielo. Un romanzo, a parere di molti insegnanti, che ha conquistato adolescenti e giovani, ma che ha la capacità di calamitare anche gli adulti. Una scrittura fresca e impastata al contesto mediale e digitale che i giovani vivono con assoluta naturalezza.



“Quando non sai rispondere a una domanda c'è una sola soluzione: Wikipedia. Su Wikipedia però non c'è scritto se è possibile che Silvia per me sia più di un'amica; la domanda mi tormenta come le cicale estive e non riesco a scacciarla.”

Con l’imponenza che ogni anima porta con sé, nel suo romanzo D’Avenia scorre temi cari all’esistenza. Sogni, progetti, amore, amicizia, noia, morte, educazione, scuola, genitorialità, insegnamento, dolore, perdita, scelte, spiritualità... Senza moralismi ma con una forte tensione poetica tinge la sua opera di colori emotivi che oltrepassano le parole per aprire finestre immaginarie sui sentimenti che il protagonista sente crescere in sé. Destreggiandosi tra le fratture interiori che i giovani vivono, trova lo spazio per offrire modelli adulti positivi - imperfetti ma con qualcosa da consegnare - e per il trascendente che cambia la percezione delle loro esperienze. Si coglie che l’autore conosce il mondo che narra. Senza derive sociologiche dipana una storia che innamora e che, pagina dopo pagina, costringe a stupirsi su quanto la vita sia così nobile e ordinaria allo stesso tempo.

“Ci sono due modi per guardare il volto di una persona. Uno è guardare gli occhi come parte del volto. L'altro è guardare gli occhi e basta, come se fossero il volto. È una di quelle cose che mettono paura quando le fai. Perché gli occhi sono la vita in miniatura. Bianchi intorno, come il nulla in cui galleggia la vita, l'iride colorata, come la varietà imprevedibile che la caratterizza, sino a tuffarsi nel nero della pupilla che tutto inghiotte, come un pozzo oscuro senza colore e senza fondo.”

Un caro amico giorni fa mi scriveva che i suoi figli stanno vivendo un allontanamento dalla fede, da una spiritualità che si manifesta anche nella partecipazione ai riti. Nel descrivere questa separazione intuiva che «chi ha parlato loro di Dio, chi lo ha reso palese o - viceversa - lo ha nascosto, non ha saputo - per il momento - accendere le loro menti e le loro anime. Arriverà il loro momento, [...] ma certamente chi sente la responsabilità di trasferire ai giovani quel che ha ricevuto deve cominciare a porsi MOLTO seriamente il problema del linguaggio da usare, dei contenuti da presentare ed ancor più della CREDIBILITA' ed AUTENTICITA' di coloro che parlano.... Stiamo attraversando un momento difficile ed io con pochi ma convinti amici non ci arrendiamo».

Ciò che spaventa non è certamente l’allontanamento dal rito, pratica talvolta necessaria per tornare a risentire la sete di un tempo davvero celebrante, ma la difficoltà che le giovani generazioni nutrono verso la sfera spirituale dirimpettaia di una consapevolezza interiore che gli impedisce di perdersi nel diventare grandi. Senza nessun intento di proselitismo, D’Avenia convoca i suoi lettori a fare i conti con Dio, l’Amore e la Morte. Una Trinità, forse un po' meno ardua di quella tradizionale, ma che eleva i giovani e meno giovani a guardarsi dentro e a mettere in ordine le cose che contano. Come ricorda l'autore, dai passaggi più duri dell'esistenza scaturisce il meglio di noi: “Proprio quando ci sentiamo più poveri la vita, come una madre, sta cucendo per noi il vestito più bello.”

Se fossi un insegnante o un educatore non mi perderei l’opportunità di leggerlo insieme ai giovani. A scuola come in un reading improvvisato in un bar. Situazioni informali come lo è Bianca come il latte rossa come il sangue. Per tornare più fragranti. Per abbracciare i nostri sogni e riconoscere i colori delle emozioni che ci attanagliano o ci fecondano. Eccone un ultimo assaggio, sperando di avervi messo appetito.

“Ogni cosa è un colore. Ogni emozione è un colore. Il silenzio è bianco. Il bianco infatti è un colore che non sopporto: non ha confini. Passare una notte in bianco, andare in bianco, alzare bandiera bianca, lasciare il foglio bianco, avere un capello bianco... Anzi, il bianco non è neanche un colore. Non è niente, come il silenzio. Un niente senza parole e senza musica. In silenzio: in bianco. Non so rimanere in silenzio o da solo, che è lo stesso. Mi viene un dolore poco sopra la pancia o dentro la pancia, non l'ho mai capito, da costringermi a inforcare il mio bat-cinquantino, ormai a pezzi e senza freni (quando mi deciderò a farlo riparare?), e girare a caso fissando negli occhi le ragazze che incontro per sapere che non sono solo. Se qualcuna mi guarda io esisto. Ma perché sono così? Perdo il controllo. Non so stare solo. Ho bisogno di... manco io so di cosa. Che rabbia! Ho un iPod in compenso. Eh sì, perché quando esci e sai che ti aspetta una giornata al sapore di asfalto polveroso a scuola e poi un tunnel di noia tra compiti, genitori e cane e poi di nuovo, fino a che morte non vi separi, solo la colonna sonora giusta può salvarti. Ti sbatti due auricolari nelle orecchie ed entri in un'altra dimensione. Entri nell'emozione del colore giusto.”