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mercoledì 25 maggio 2011

Violapensiero n°34



Profonda esperienza fare la giurata al Sesto Premio Nazionale di Poesia Religiosa “San Sabino” organizzato dal Gruppo Culturale La Perla. Domenica a Torreglia Alta c’è stata la premiazione nella pieve proprio di San Sabino carica di storia e di verdi profumi al suo esterno con un panorama impagabile. Abbiamo premiato poesie ricche di una maestosa ricerca interiore, colme al contempo della pace e della lama che ogni percorso spirituale porta con sé ma prive di quell'alone troppo "devozionale" che talvolta di poetico ha ben poco. Molte donne tra le premiate ma di certo non lo sapevamo in fase di analisi. Persone da tutta Italia e premi anche sostanziosi.

Fare il giurato è un’utile esperienza pedagogica perché quando giudichi davanti agli occhi hai solo un foglio con le parole impresse sulla carta. Non c’è nessun condizionamento di nome, estetica, conoscenza, genere. Tutto verrà svelato solo successivamente dopo la scelta finale. L’unico condizionamento che si subisce e a cui ormai siamo poco abituati è il ragionare con i compagni di giuria. Ascoltare come leggono la poesia che nell’intimità della tua analisi forse aveva perso qualcosa, il considerare le loro opinioni e sensazioni nei confronti del testo che magari avevi accantonato ma poi grazie alle loro segnalazioni e motivazioni riprende slancio e si affranca nella corsa al premio. Gli altri ci cambiano anche in questo caso. Rendono meno dozzinale il nostro sguardo o noi rendiamo più alto uno sguardo distratto di altri. La vita ogni giorno dovrebbe essere più simile a quello di un giurato.




Anche il primo premio è andato ad una donna. Monica Cornali, psicologa di origine bergamasca trasferitasi ad Albignasego. Quando è andata a ritirare il premio e ad ascoltare seduta in una sedia regale la motivazione della vittoria della sua poesia, letta nel frattempo da un attrice, non era sola. Con lei c’era un bambino. Suo figlio Agostino. Da lì in poi mi sono persa. Ho avuto occhi solo per questo bambino così fiero della mamma, da stringerla in un modo tutto suo. Un abbraccio non solo affettuoso, alla ricerca di sicurezza, di non rimanere solo, ma quel cingere per esprimere la stima che prova nei confronti della sua mamma. Cosa sa un bambino ancora così piccolo della poesia? Eppure i suoi occhi capivano.

Durante un momento di festa successivo il marito di Monica c’ha raccontato come lei abbia sempre scritto, ma durante la gravidanza in modo davvero intensivo. Era un continuo mettere in poesia le emozioni e le percezioni dello stato di grazia in cui era immersa. Lei stessa ha aggiunto che sentiva e sente tuttora il bisogno di lasciare ad Agostino qualcosa di scritto che possa essere qualcosa di buono, capace di impreziosire la sua vita.

In quel momento sono riaffiorate in me tutte le sensazioni e i desideri che hanno portato alla nascita di questo blog. Non è poesia. Non è letteratura. Nessuna altezza vertiginosa di senso, nessun guizzo estetico o figure retoriche, ma nel mio piccolo avevo provato lo stesso desiderio di Monica e come lei continuo a sentirlo.

Il prof. Giampiero Giuliucci, direttore artistico del premio e persona di rara sensibilità e delicatezza, in un passaggio della sua introduzione alla cerimonia ha detto che siamo noi a costruire la spiritualità di chi verrà dopo di noi. Mi ha colpito molto questo particolare punto di vista secondo cui l'approdo della nostra spiritualità diventano le generazioni future e non noi stessi.

E allora mi fermo, respiro, rifletto e nel mentre mi chiedo quali cattedrali stiamo costruendo per Viola e per gli altri bimbi che come lei sono ancora sulla soglia dell’esistenza. Se vorrete, lasciatemi, lasciamoci, un pensiero, anche fugace, su questo. Anche qui nel blog.

Di domanda in domande ecco la poesia premiata di Monica Cornali:



Mi toglierai le domande

come si tolgono le spine.

Tu solo, confido,

mi farai rosa.

Giardiniere

e profumo stesso

del mio cuore,

Tu, O Signore.

sabato 23 aprile 2011

Violapensiero n°33

Domenica scorsa da sotto le nostre finestre è partita la maratona del Santo, quella lunga di 40 e passa chilometri. Con il Viola e il suo papà avevamo deciso di scendere a gustarci la partenza. Finita l’era del bambino “budino” = primi 5 mesi (i diritti d’autore di questa espressione sono del mio amico Giovanni Realdi;-) si scatena un periodo in cui alcune cose si possono fare e altre molto meno, come ad esempio andare a messa con Viola che canta tutto il tempo (c’è di che riflettere O_o) e ti tocca auto rinchiuderti in sacrestia per il 95% della messa.

Ecco, guardare la partenza di una maratona si può fare e nel caos generale la sua gioia si confonde bene. E poi ci piaceva fare un po’ di sano tifo per il nostro parroco che vi partecipava con il n°1. In pieno stile associativo la sera prima avevamo anche elaborato un lenzuolo di sostegno calato dal nostro autorevole secondo piano.

Fin qui tutto bene e anche la partenza di ogni genere (a piedi, sulle carrozzine, hand bike, all’indietro, in coppia…). Al rientro sempre dal nostro secondo piano guardo con Viola che in pochissimo tempo i volontari mettono in ordine transenne e altri strutture montate per l’occasione. Lo spettacolo ora si sposta su Padova, ma come ogni palcoscenico il dietro le quinte lascia sempre qualche amaro in bocca.

E’ usanza tra i maratoneti rimanere ovviamente coperti fino alla partenza finché qualche attimo prima non si liberano della maglia che li ha protetti dall’emozione e dalla brezza primaverile. Accatastati in un angolo si scorgono raggruppati centinaia di indumenti. Non faccio a tempo a pensare "che peccato, speriamo le mettano a disposizione di qualcuno che ne ha bisogno invece che buttarle" che vedo una donna araba (l'aggettivo non aggiunge nulla al discorso!) che si avvicina e inizia a scegliersi qualche capo da portare via con sé. Lo fa in fretta, quasi con la voglia di non essere notata (il mio sguardo è nascosto, si posa discreto dall’alto…). Sono quasi contenta, il mio pensiero e la realtà si sono avvicinati con una insolita velocità. Così insolita che dopo pochi secondi sento la voce di un uomo che le grida in perfetto veneto
 «onta, torna al to paese».
La tristezza che ho provato per quella donna che quasi certamente era una madre e non era lì solo per sé stessa permane tuttora. Bestiario veneto direbbe uno famoso. Sì, siamo come le bestie. Continuo ad abbracciare nel mio intimo quella donna che ha compreso quanto le ha gridato quell’uomo e che già prima si vergognava di quanto era costretta a fare quando null’altro accanto a lei lo stava facendo.



Anche se Viola non ci permette grandi celebrazioni pasquali come un tempo (il sabato santo di un anno fa l’ho sentita muoversi per la prima volta), nell’ottica accattoliana di “Cerco fatti di Vangelo”, sceneggiature evangeliche non mancano attorno a noi. Ecco, se Viola potesse già capire (forse si?!)… la Pasqua gliela spiegherei con questo fatto! E della Pasqua abbiamo proprio bisogno. Di un divino che ci renda più umani, di una conversione che ci avvicini all’amore per i fratelli nel disagio. In quelle maglie per terra ho visto le bende di un altro famoso racconto che vi lascio di seguito.

Nel giorno dopo il sabato, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand’era ancora buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!» . Uscì allora Simon Pietro insieme all’altro discepolo, e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro.  Chinatosi, vide le bende per terra, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le bende per terra, e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti. (Gv 20, 1-9)

giovedì 7 aprile 2011

Violapensiero n°32

«Alla nascita d’un bimbo / il mondo non è mai pronto, ha scritto il premio Nobel per la poesia Wislawa Szymborska. Due versi che dicono una verità profonda sulla condizione umana: la nascita non è un evento fra tanti. Il bambino segna una rottura rispetto alle abitudini del mondo che lo circonda, perché è una vita umana che, al momento della nascita, viene avvertita in tutta la sua potenzialità carica di futuro e di promessa. E’ naturale di fronte ad essa provare tenerezza e senso di cura, ma anche incertezza, imbarazzo, consapevolezza della propria incapacità di comportarsi in maniera adeguata. E se questo vale per un neonato, vale anche per un bambino che cresce. Le sue reazioni comunicano una spontaneità difficile da organizzare e contenere. Quando bisogna confrontarsi con un bambino occorre ristrutturare il proprio modo di agire, di parlare, perfino di pensare, a volte. E questo può condurre ad una meditazione sulla vita, a una comprensione differente del proprio rapporto con gli altri o anche con se stessi e con la propria storia personale».

Tratto dal saggio "Quando si accudisce un bambino. L'esperienza di tre scrittori
di Antonio Spadaro in Civiltà Cattolica gennaio 2010 - Quaderno 3829

Questo intenso incipit di Antonio Spadaro, http://www.bombacarta.com/, gesuita di cui ho profonda ammirazione letteraria, apre un suo saggio dedicato a tre scrittori che in modo diverso  restituiscono l’argomento della presenza improvvisa di un bimbo nella vita. Uno statunitense, un israeliano e un’italiana. Letture che non voglio svelare, se non chi andrà a procurarsele personalmente nel saggio, perchè spero di dedicarmi presto ad esse, presentandole in questa sede più virtuosa che virtuale.

Sono convinta che ciascuno di noi conosca in qualche modo questo straniamento indicato dal poeta. Davvero non siamo mai pronti. E non è una questione di perfezione o di capacità. La novità tracima ogni contenitore a disposizione. Guardo mille volte al giorno Viola e non sono mai pronta a quanto conclude Spadaro:

"al problema essi fanno sempre precedere lo stupore dell'esperienza".

Non saranno pronte le mie amiche Elena, Raffaela (con una sola L), Cristina ed Elena che rispettivamente a distanza di ore, settimane, mesi e trimestri avranno tra le braccia la creatura che stanno coltivando con dedizione. A loro penso in questi giorni e in questa empatica vicinanza il mio corpo assume una movenza invocante verso l’alto perché le trame della vita siano generose e abbondanti nei loro confronti. Ricche di coraggio e maestose vivono il loro non essere pronte colmando d’amore questa sana e stupenda inadeguatezza.

Perfino i bambini vivono questa impreparazione. In una delle mie mattinata cinematografiche con le scuole alle prese con un simpatico film, a misura di bambino, proprio uno di loro con poco più di dieci anni di vita alle spalle durante l’attività successiva alla proiezione alla mia domanda se qualcuno di loro aveva mai provato qualcosa di simile rispetto a quanto visto, interviene dicendo ad almeno suoi duecento coetanei:
«La mia matrigna tra poco avrà un altro figlio e io non sono pronto. Avevo già i miei fratelli. Mi sento pieno di nervoso. Spero sia solo adesso e mi passi presto ma sono molto preoccupato». 
Rivedendolo a distanza di settimane in un’altra proiezione, mi sono avvicinata in modo discreto e gli ho chiesto se gli era passato un po’ di nervoso. Con sguardo tenero mi dice che va un po’ meglio.

Al di là della capacità maieutica del cinema su cui ho prove ormai scientifiche, ciò che mi provoca è la molteplicità dei modi che esistono di vivere questa impreparazione e come questo ragazzo esprimesse una sua condizione bisognosa di ascolto e comprensione. Un suo “collega”, altrettanto giovane, al termine della proiezione mi viene invece a chiedere:
«ma com’è essere mamma?»

Il pensiero prende allora variopinte traiettorie diverse:


1. mi sovviene la domanda del Violapensiero n° 3… quando sei diventata mamma?

2. c'è ancora qualcuno che sa fare una domanda intelligente!

3. chissà se l’ha mai chiesto alla sua mamma…

4. che bello parlare di questi argomenti in ambito scolastico

E avanti così finché non mi son decisa a rispondergli quanto rimarrà nella discrezione di quella nostra mini conversazione.

Dice bene Spadaro che
la nascita non è un evento fra tanti
eppure se ne parla ancora troppo poco e in alcuni ambienti non se ne parla proprio. Per questo motivo davvero ritengo raro e profetico il progetto sul Quinto obiettivo che Fondazione Fontana ha promosso quest’anno all’interno del lavoro significativo svolto in modo indefesso da anni con WSA in materia di obiettivi del millennio. Parlare di maternità, salute materna, salute di genere nelle scuole di ogni livello, http://www.worldsocialagenda.org/2011-salute-materna creando quella sensibilità e attualità attorno ad un tema bistrattato o spesso frequentato da altri poteri forti soprattutto per motivi commerciali e di consumo.

Una cara amica, Giorgia, che ha partecipato come animatrice dei percorsi scolastici di WSA, mi racconta che:

«Nel portare il tema della salute materna nelle classi (scuole medie) ho trovato i ragazzi molto più interessati e partecipi di quello che avrei pensato. Lo credevo un tema piuttosto distante da loro, invece quando chiedevo cosa si prova toccando la pancia di una mamma incinta o quali impegni deve portare avanti una donna nella sua vita ad es. le loro mamme (lavoro, casa, famiglia ecc), avevano ben chiaro di cosa si stesse parlando e di quale mistero e grande sfida ci sia dietro una donna che diventa mamma. Tanto che in ogni classe almeno un maschio risponde che non vorrebbe mai essere nato donna per non dover affrontare il doloroso momento del parto e il carico di impegni sulle spalle di una donna-mamma, inoltre più di qualche ragazza risponde che è bello essere donne per svariati motivi ma è evidente ai loro occhi la disparità ancora esistente fra uomo e donna anche in Italia (abbiamo parlato ad es. dei diversi stipendi per M/F a parità di ruolo, della difficoltà di avere sostegni/tutele nel momento in cui una mamma rientra nel mondo del lavoro, di ragazze costrette a firmare assieme al contratto la dichiarazione in cui dicono che non resteranno incinta per alcuni anni, pena il perdere il posto), per non parlare della situazione della donna e in particolare della donna-mamma negli altri paesi del mondo».

In tempi in cui anche il telegiornale più serio dopo mezzora di notizie sta ancora parlando sempre e solo di Ruby Rubacuori, per non parlare del Parlamento e relative leggi e impegni (opposizione compresa O_o)… per fortuna c’è ancora qualcuno che in posti seri come una scuola discute di argomenti altrettanto essenziali. Fermo restando che non saremo mai pronti alla nascita di un bambino, parlarne apre le porte ad un nuovo umanesimo.

p.s. molte donne, madri e non, continuano a chiedermi notizia del telelavoro e di darne almeno qualche spunto nel blog. Me ne parlano come di un “disco volante” atterrato in giardino, insomma cose d'altro mondo sconosciute a questo mondo. Nei prossimi Violapensiero è mia intenzione provarci con l’aiuto, spero, anche di altre donne che hanno fatto o stanno facendo questa esperienza. Se ne conoscete, me le segnalate? Oppure invitatele ad intervenire nei prossimi pensieri viola postando un loro contributo;-)





giovedì 24 febbraio 2011

Violapensiero n°31


La donna biblica è una donna che osa. E’ prometeica. Forse perché deve riparare al danno fatto, potrebbero dire i moralisti: avendo introdotto ella la “morte” nel mondo, deve industriarsi in ogni modo per sconfiggerla. Ma le categorie bibliche non sono – innanzitutto – moralistiche, bensì sapienziali e spirituali. L’applicazioni delle categorie moralistiche è una chiave ermeneutica in effetti abusiva ed estremamente dannosa. Morte e vita sono, all’inizio della storia dell’umanità, di per sé inscindibili.



Sono l’intelligenza umana e lo Spirito di Dio che danno all’uomo la capacità di distinguerli, di scegliere, di ricavare il bene anche dal male, sfidando, in tal modo, la morte.

Se la donna, infatti – ispirata dal serpente – introduce il male nel mondo, ella vi introduce la sapienza. I testi sacri fanno di lei la personificazione della Sapienza. Di una sapienza che contempla tutte le scienze e le conoscenze, fino a raggiungere il timor di Dio, e che non ha paura di adottare ed attingere ad ogni competenza, ai metodi e alle tecniche, all’audacia e alla preghiera.


In quanto tale la donna riassume in sé la più grande caratteristica di tutta l’umanità biblica: la creatura capace di riflettere, di conoscere la bontà del bene e la malvagità del male e di scegliere il bene per custodire, così, la vita e costruire la terra. Quel “paese” che Dio le ha affidato, fuori da Eden, per esercitare la libertà.
Rosanna Virgili, Le stanze dell’amore

Le riflessioni sulla donna della biblista ed esegeta Rosanna Virgili messe insieme a quello che molte di noi raccolgono in tante “sacche” di vita quotidiana stridono davvero tanto. Senza aggiungere tutto quello che ci è passato davanti in questi mesi tra tv, giornali e internet con dovizia di particolari.

Qualche giorno fa mi è capitato di sognare un “uomo” che conosco. Un lui né troppo vicino, né troppo lontano. Mi parlava in modo serio, autentico con il tono di una persona che il diritto chiamerebbe come “il buon padre di famiglia”. Ricordo che nel sogno ero felice, letteralmente beata. Di recente questa persona non mi ha rispettata in svariati modi e per di più con modalità che come donna mi sono rimaste oltremodo indigeste, scorrette e dolorose. E’ un sogno che ricorderò per molto tempo.

Al risveglio ho sentito sulle labbra al risveglio il sapore di quanto sta a cuore alla maggior parte delle donne. Quel come vorremmo che qualcuno si relazionasse a noi, che in piazza del Popolo a Roma, al “Se non ora quando?, domenica 13 febbraio sr. Eugenia Bonetti ha riassunto con parole chiare e incisive:

"La donna è diventata solo una merce che si può comperare, consumare per poi liberarsene come un qualsiasi oggetto “usa e getta”. Troppo spesso la donna è considerata solo per la bellezza e l’aspetto esterno del suo corpo e non invece per la ricchezza dei suoi valori veri di intelligenza e di bellezza interiore per la sua capacità di accoglienza, intuizione, donazione e servizio, per la sua genialità nel trasmettere l’amore, la pace e l’armonia, nonché nel dare e far crescere la vita. Il suo vero successo e il suo avvenire non possono essere basati sul denaro, sulla carriera o sui privilegi dei potenti, ma deve essere fondato sulle sue capacità umane, sulla sua bellezza interiore e sul suo senso di responsabilità."
Qui potete leggere tutto il suo intervento http://www.fulvioscaglione.com/index.php/democrazia/suor-eugenia-bonetti-for-president/ e qui http://www.famigliacristiana.it/ nel sito di Famiglia cristiana trovate anche il suo blog “Noi donne oggi”.

Nell'edizione padovana di "Se non ora quando" ho respirato quanto donne, famiglie, nonne e nonni o semplicemente comuni cittadini siano scesi in piazza per dire basta, non tanto o almeno non solo, alle scorribande indecorose di compravendita del nostro Premier nei confronti dell’universo femminile, quanto piuttosto per ribellarsi a quel mondo maschilista che ci annienta giorno per giorno e che una parte  della comunicazione sostiene con dettagli, strategie, estetiche e linguaggi. Trattamento che "infastidisce", termine ormai troppo tenue, donne e uomini sani, integrati con se stessi e l’altra metà del cielo per amore, amicizia, professione e qualsivoglia occasione.

Viola, mia figlia, era con me alla manifestazione senza dubbio pacifica, priva di colori e atmosfere politiche e ricca di una forza sismica che si espanderà ad un sussulto senza tregua che ci legherà tra di noi e a quegli uomini che non si riconoscono in questa farsa di potere e possesso. Non sono pochi. E sono riconoscibili da quel fascino intelligente e rispettoso che tira fuori il meglio di noi.

Alcune nonne mi fermavano per rinfrancarmi sul continuare a passeggiare con Viola su strade di orgoglio e difesa di quanto siamo e possiamo essere. E come Viola c’era tanti altri bimbi piccoli, ragazzi, adolescenti assieme ai loro genitori a lanciare verso il cielo palloncini rosa. Quasi a dire “donna, vivi quello sei”. Lasciati andare, vola. Non lasciarti intrappolare in questo grigiore.

Non si può più abdicare a livello educativo. E’ d’obbligo prodigarsi su tutti i fronti possibili per ricostruire un immaginario armonioso della donna proporzionale alle capacità che ella custodisce in sé e che la grossolanità di decenni di immagine televisiva e la pochezza del nostro parterre politico hanno progressivamente ridotto in cocci.

Due film raccontano  quale oscurità ci abbia inghiottito e quanto alta sia la posta in gioco. Il primo "An education" ambientato negli anni ‘60 in Inghilterra e a distanza di decenni ci mostra in modo efferato quanto gli schemi maschilisti si possano ripetere pari pari oggi in Italia e quanto spetti a noi donne di ogni età interrompere. Il secondo "The social network" rivela come la nostra società corra seri rischi sostenendo la priorità dell'immagine sulla personalità, la vittoria del consenso e della notorietà sull'incontro e l'ascolto dal vivo.







Lavorando al cinema frequentemente con gli adolescenti raccolgo da loro frasi, posizioni, indifferenze che fanno venire i brividi. “La donna si fa usare e gli uomini fanno bene ad usarla” ha chiosato un ragazzo l’altro giorno con una tranquillità da far piangere. In realtà ciò che più sconvolge è il non contemporaneo sbottare delle ragazze che accettano in silenzio tali sentenze di coetanei. Solo una ragazza, originaria dai Balcani, è esplosa contro questo maschilismo serpeggiante anche nelle giovani generazioni rimproverando il compagno per aver dipinto la donna come un oggetto o un corpo da possedere. Lei, che forse la schiavitù poteva incontrarla davvero come altre sue conterranee costrette  nelle nostre strade, ha avuto un grido di dignità. Le sue compagne italiane, che invece non corrono il pericolo della schiavitù imposta dalla malavita, sembravano addormentate dal torpore di una prigionia altrettanto violenta: la dittatura dell’immagine che toglie loro attimo dopo attimo l’ossigeno di una sessualità all’altezza dell’affettività e le calorie di una comunicazione in tono con una capacità relazionale autentica.




Non si tratta né di moralismo né di dare un’idea angelica o eterea della donna.

Imperfette ma salde su valori imprescindibili per la nostra natura femminile. 
Anche per queste ragazze narcotizzate dalla tossicità adulta circostante che è scesa a patti con il diavolo spingendole nelle braccia del denaro, dei regali, del lusso e del mantenimento, dobbiamo stringere i denti e aiutarle ad intravedere una donna più reale, più vera, più onesta, più capace di amare e farsi amare.



Anche per loro dobbiamo gridare che la “strada corta” non ci porta da nessuna parte. Non siamo le donne di nessuno e men che meno del capo. Non siamo le donne nemmeno dei nostri mariti o compagni. Apparteniamo solo a noi stesse come ogni persona appartiene alla sua anima. E gli unici legami che vogliamo intrattenere con gli uomini che incontriamo sono quelli che ci possono rendere semplicemente migliori, autonome, adulte e serene.

Ogni altro “possesso” è fuori tempo, fuori gioco. Rispediamolo al mittente ad alta voce e continuiamo il "se non ora quando" l'8 marzo:  http://senonoraquando13febbraio2011.wordpress.com/

venerdì 11 febbraio 2011

Violapensiero n°30

«Ma io non voglio che al mondo ci sia soltanto uno come me», protestò Ben.  «Perché no?», si stupì la mamma, «è una cosa bellissima che tu sia unico e speciale!».  «Perché così sono solo!», si lamentò Ben, «mentre io voglio che ci sia anche qualcun altro come me!» «Tu non sei solo», gli spiegò la mamma, «ci sono io con te, e anche papà». «Sì», ammise Ben, «però…». Era confuso e non ricordava più cosa voleva dire. «Vieni qui», mormorò la mamma, «siediti vicino a me». Ben non si sedette. All'improvviso i suoi occhi si fecero grandi e profondi: «E non c'è nemmeno nessuno al mondo come te?». «No, non c'è», disse la mamma. «Allora anche tu sei sola?» «Ma no. Ho te e papà…». «Ma non c'è nessuno proprio uguale a te?» «No, non c'è», ammise la mamma.  «Allora sei sola», proclamò Ben sedendosi accanto a lei. «E non ti senti sola, da sola…?». La mamma sorrise, disegnò col dito dei cerchi per terra e rispose, «sono un pò sola e sono un pò con gli altri, e a me va bene essere un pò così e un pò cosà…».

David Grossman, L’abbraccio

In questa fiaba senza tempo Grossman si pone il problema del perché sia stato inventato l’abbraccio e ne affida una sua motivazione, tutt’altro che banale, al risolutivo dialogo tra una madre e il suo bambino. E’ bizzarro, se non geniale, che per spiegare la faccenda delle umane braccia contenitive, lo scrittore israeliano parta dall’idea di cui ci facciamo promotori indefessi con i bambini per poi smentirci clamorosamente nelle relazioni tra adulti. Ovvero che ognuno di noi è unico al mondo. Com’è che diciamo ai bimbi… Speciale? Originale? Poi si diventa grandi e la diversità si scopre come una tremenda condanna. Raramente un valore.

Raccontando questo dramma universale attraverso la relazione simbiotica tra madre e figlio, Grossman crea una sorta di corrispondenza tra il tema e i personaggi dell’azione narrativa. L’essere unico è uno spavento da lupo cattivo. Una sensazione che emana il profumo nefasto della solitudine. Se non c’è un altro come me sulla Terra, allora sono solo? Nel percepirsi isolato l’uomo sfiora il suo orizzonte mortale, finito. Per un bimbo è una sensazione oltremodo tenebrosa che lo spinge a stringersi alla madre, la culla dei suoi desideri.

Christian, uno dei due ragazzini protagonisti di In un mondo migliore di Susanne Bier, deve aver provato un sentimento oscuro come quello di Ben. Ha perso la madre per una malattia e assistendo al calvario materno, ha ingoiato giorno per giorno un boccone amaro che ora non va né giù né su e che lo illumina a lutto. Sente il peso solitario di un’unicità rimasta orfana troppo presto e la perdita di una complicità che non sembra riproponibile con il padre. Verso di lui anche il sospetto che non sia stato vero fino in fondo con la moglie. Conflitti non detti, dolori troppo silenti senza verba, lacrime soffocate. Esperienze nel tempo sufficienti a creare il dna di un violento, di uno che non perdona, di uno che vendica. A Christian manca quella mano di mamma che Ben invece afferra forte. Un ragazzino che produce armi, viola cose e persone alla ricerca di una pace che non trova. Ma c’è Elias, il compagno nella nuova scuola. Con lui mattine e pomeriggi affettuosi e insidiosi. Un abbraccio e una ferita.




E’ solo, ma solo un po’ come dice Grossman. Elias e la sua famiglia, in una serie di sviluppi vertiginosi del film, gli daranno il coraggio di guardare il male nascosto dentro di sé, il dolore tumorale che lo divora giorno per giorno e la forza per riavvicinarsi agli affetti rimasti. In un mondo migliore è anche il desiderio che custodisce il padre di Elias continuamente in bilico tra l’Africa dove lavora come medico in un campo profughi segnato da guerre locali e la Danimarca evoluta e ricca dove un padre distratto in poche settimane può ritrovarsi con un figlio bombarolo. Non c’è contesto privilegiato che tenga; la violenza mette radici ovunque. Le buone famiglie? Le buone maniere? Tutte sepolte da un odio radioattivo che si respira nell’aria.

Tolgono il respiro alcune sequenze dedicate al padre di Elias indignato di fronte alla volgarità della forza e del potere, all’assurdità della presunzione e della prepotenza ma deciso a mostrare ai figli e a Christian come si affronta il male vis à vis e di come il male non possa farci davvero male. Una scena da guardare e riguardare. Gli schiaffi di un balordo che colpiscono ripetutamente il padre di Elias divengono sberle per lo spettatore chiamato a prendere posizione sul da farsi.

Reagire o mostrare ai piccoli come uscirne? I bambini apprendono per “testimonianza”. Niente prediche solo fatti da imitare. Ecco, il padre di Elias spiega ma prima ancora mostra, vive con loro, li trascina in vicissitudini anche fin troppo ardue da comprendere a parole. E’ così cocciutamente ancorato al bene, ad una via non violenta, che una situazione limite in Africa metterà in subbuglio la sua coscienza.

Chiudo il cerchio di una danza di bimbi della vita, dei film e dei libri con Viola che dopo cinque mesi di vita mi sta dicendo proprio quello che il padre di Elias considera la miglior educazione. Viola lo dice a me, al papà, a tutti coloro che le siedono accanto: «Apprendo ogni vostro gesto, carezza, scorrettezza. Vi scruto e pedino le vostre mosse, siete il mio passaporto per la vita». Ogni cosa che le è un po’ ostica, se prima la faccio su di me e gliela mostro, subito diventa accessibile anche per lei che prima non voleva saperne. Anche cose banali, ma magari per lei ciclopiche.

Ai suoi occhi siamo credibili, siamo l’immagine del mondo possibile. Anche del mondo migliore? Per noi come famiglia è sicuramente una resa dei conti. Possiamo essere veri oltre ogni maschera finora indossata anche tra sposi. Intuisco che nella Chiesa come nella politica questo tempo non è da meno. Viviamo una contemporaneità segnata da una grossolanità incontenibile: ciò mi interpella.

Come dicono molte donne, “se non ora quando”?







giovedì 20 gennaio 2011

Violapensiero n° 29


“Quando avevo un fumetto di Tintin aperto sulle ginocchia, nessuno sapeva che stavo leggendo. Tutti credevano che mi accontentassi di guardare le figure. Di nascosto invece leggevo la Bibbia. Il Vecchio Testamento era incomprensibile ma, nel Nuovo, c’erano delle cose che mi parlavano.

Adoravo il passaggio in cui Gesù concede il perdono a Maria Maddalena, anche se non capivo la natura dei suoi peccati, dettaglio, questo, di cui mi importava poco; mi piaceva il fatto che lei si gettasse ai suoi piedi e glieli strofinasse coi suoi lunghi capelli. Avrei voluto che la stessa cosa fosse fatta a me.”
Amélie Nothomb, Metafisica dei tubi

Il mio collega di stanza quando sono diventata mamma mi ha regalato questo piccolo romanzo a dir poco simpatico. Dopo tanti libri impegnati avrà pensato che era ora di dare un po’ di tregua al blog con un’opera, tutt’altro che disimpegnata, ma come scrive La Repubblica sicuramente “corrosiva”. Io e lui abbiamo passato così tanti anni stretti stretti in un ufficio che per motivi spazio-temporali possiamo definirci “una coppia di fatto” anche senza esserci scelti. Tra pochi giorni inizierò un’esperienza di “telelavoro” (l’ufficio da casa) e sicuramente la cosa che mi mancherà di più sarà il mio partner involontario.

C’eravamo lasciati con le peripezie dei neogenitori Burt e Verona in American life che nel film si dicono pensando alla bimba in pancia una frase che ci diciamo tutti con estrema facilità e che all’incirca suona "Lei sarà quel che vorrà”. Chissà se loro e noi saremo all’altezza nei gesti di tutti i giorni di avverare questa libera apertura. Nel dubbio, se volete rinforzarvi, il romanzo della Nothomb su questo fronte diverte amabilmente.

Amélie, figlia di un diplomatico belga, nacque in Giappone nel 1967 e vi rimase per cinque anni, prima di spostarsi in Cina con la sua famiglia. Ha scritto moltissimi libri tra cui la Metafisica dei tubi che riporta molte suggestioni autobiografiche della sua primissima infanzia. La storia è narrata in prima persona da questa creatura irriverente che passa dal vuoto/nulla dei primi mesi, (un tubo digerente con il nome “Dio”), alla conquista finalmente della vita (l’identità!) nel giorno in cui la nonna gli somministra del magico cioccolato bianco. Mentre lo leggevo mi chiedevo come sarebbe un film tratto da questo libro. Ricordo di aver provato la stessa sensazione con il romanzo L’eleganza del riccio.

Ogni pagina attesta la distanza siderale che intercorre tra lei e i suoi genitori che aspettano come un miracolo la fine dell’apatia iniziale della bimba che vive finora come un vegetale, per poi pentirsene amaramente quando la loro silente piantina si trasforma in una bestiolina irritabile che cancella il silenzio dalla faccia della terra. Il tutto sullo sfondo di un Giappone di cui l’autrice restituisce palpabili atmosfere e ricchi dettagli.


Questa citazione mi è venuta in mente l’altro giorno quando Viola è entrata definitivamente in società. Il come ve lo racconto subito. Dopo il bagnetto santo, il suo secondo battesimo penso sia stato cadere dal letto con tonfo solenne e provare quel dolore misto a stordimento e poesia (un volo pindarico!). Fatto sta che l’ho trovata sotto il letto a pancia in giù con un inizio di pianto subito placatosi nel raccoglimento di un abbraccio. Dopo aver devoluto 2-3 anni della mia vita all’aldilà per lo spavento, altre mamme sanno a cosa mi riferisco;-), è passato tutto in fretta tranne un letterale “ribaltamento emotivo” giornaliero della piccola e una guancia ammaccata definitivamente proprio color violetta. Ero passata in camera 2 minuti prima e Viola era dalla parte opposta di dove l’ho trovata a terra e per di più era ben recintata da un esercito di cuscini. Avevo già colto che dormendo faceva un giro di orologio con il suo corpicino atletico, ma di solito in un arco di tempo ragionevolmente lungo. E invece ha attraversato un intero letto in pochi istanti - una maratona per un bimbo! - malgrado si muova solo spingendosi sul culetto.

Rileggendo questo passo della Nothomb ho pensato che Viola, come la bimba Dio nella Metafisica dei tubi, si burla di noi. Ci fa credere che si sposta solo di poco come un'esile lumachina e invece lei si sa già muovere come una scaltra lucertola ma si guarda bene dal condividere questa capacità che altrimenti verrebbe subito civilizzata dagli adulti che l'hanno in custodia. E così sguscia al di fuori del mio sguardo con una certa agilità finché non cade ed entra come dicevamo per sempre in società. Cascare sarà una delle cose che non smetterà mai più di fare nella sua vita. In realtà le faranno credere, noi compresi, che diventare grandi significa non cadere più. Chissà se troverà qualcuno che all’orecchio le sussurrerà che pure gli adulti cadono, ma sono più furbi e usano altri verbi per dirlo. Crollare, piombare, ricadere, decadere... sfumature diverse che dicono i capitomboli dei grandi. E chissà se qualcuno la aiuterà anche a capire che diventare grandi è proprio sapersi rialzare con le proprie forze. Non che gli abbracci non servano da grandi, anzi e quanti…, ma di energie proprie il frigorifero della nostra dimora non dovrebbe mai trovarsi sprovvisto.

In questi giorni in cui mi capitano addosso “cadute” di ogni genere ed età, sto meditando su questa esperienza e sul suo significato. Un attività che mi piace fare in questi casi è giocare con i sinonimi e i contrari, perché mi pare di vedere meglio quanto sto cercando di afferrare e soprattutto di vederlo da diversi punti di vista. Anche da un versante più simbolico. Con il verbo “cadere” sento che questo gioco mi apre delle finestre di senso preziose. Cadere è scomodo, di certo non piacevole a nessuna età, ma se si prova ad esplicitare l’azione del cascare con parole diverse, forse diventa quasi un atto "sensato". Cadere non significa letteralmente cambiare altezza? e per dirla tutta, abbassarsi? E’ un po’ venire giù?

Senza aprire pedanti riferimenti all’attualità che ormai si commenta da sola, se cadere può avere anche questa traduzione - e non solo le due conseguenze di perdere una postazione e di sbattere contro qualcosa -, non è proprio solo una sventura. Chi non cade mai, non impara ad abbassarsi verso chi sta un po’ più giù (e non solo emotivamente). Chi non casca, altrimenti non viene mai giù dal piedistallo. E chi non finisce a pancia in giù, non cambia mai quota e penserà sempre che non esistano altri panorami esistenziali oltre al suo.

Esistono altezze diverse anche se dal pediatra cercano di incasellare i bimbi in un software in cui inseriscono tutte le loro misure per vedere se rientrano nella curva  della crescita tradizionale. Avrà anche il suo perchè medico, non lo nego, ma l'altra volta quando mi ha mostrato dove Viola si posizionava, ho avuto un sussulto negativo dentro di me. Ecco l'avevamo appena inquadrata nel sano-insano ed io ero stata complice di questa pratica schematica. Ovviamente era fuori curva e forse ne ero quasi quasi felice.

I bambini fingono, sanno essere e fare prima che noi ce ne accorgiamo. I bambini cascano dall'alto e mentre perdono dei centrimenti in altezza, altrettanto guadagnano qualche millimetro di cuore. Nuove altezze, nuove percezioni. Nuove percezioni, nuove sensibilità.  L'umanità si conquista anche dal basso. A dirla così sono quasi felice che Viola sia caduta e spero possa cadere ancora. Ovviamente solo se i tonfi diventano occasioni “metafisiche”.

Vi dico arrivederci con una maestosa citazione della Nothomb. Anche se la parte che amo di più  è quella in cui narra del regalo dei genitori: le tre carpe che diventano ironicamente per lei la trinità Gesù, Giuseppe e Maria. Troppo lungo per copiarlo. Scopritelo da voi.

“Se riesci a scrivere le meraviglie del tuo paradiso nella materia del tuo cervello magari non trasporterai nella tua testa la loro realtà miracolosa, ma la loro forza, quella sì. Vivrai solo consacrazioni. I momenti che lo meriteranno saranno coperti con un mantello di ermellino e incoronati nella cattedrale del tuo cranio. Le tue emozioni diventeranno le tue dinastie.”

sabato 8 gennaio 2011

Violapensiero n° 28

Cugina di Bart: "Ci hanno comprato un passeggino".

Verona, compagna di Bart: "Che c’è di sbagliato in un passeggino?"

Cugina di Bart: "Io amo i miei bambini: perché dovrei spingerli lontano da me?"

Dialogo tratto dal film di Sam Mendes, American life



Burt e Verona, trentenni al sesto mese di gravidanza sono a spasso per l’America per decidere dove crescere la loro prima nascitura. Va molto di moda avere dei film da usare in ambiti formativi. Il cinema come uno specchio. C’è il film che va bene per i fidanzati. Quello per le coppie e quello per i genitori. Con American life, sul grande schermo in questo periodo, c’è anche quello per le gravide (primipare) e i loro fedeli compagni. Chissà mai che il cinema entri anche nei corsi pre-parto, visto che ora mai in questi momenti si approfondiscono temi legati alla gravidanza e alla maternità in generale.

Si, forse il film non è un capolavoro come si affrettano a chiarire gli specialisti del Mendes di American beauty, ma di materiale su cui riflettere ne ha da vendere. American life è un film che sa di cosa parla grazie alla sceneggiatura originale di Dave Eggers e Vendela Vida. Le domande su cui si regge il film non sono per niente banali e il titolo originale Away we go le afferra meglio:

1. In quale comunità crescere un figlio?

2. Di quali buone promesse necessita una coppia?

3. Che approccio educativo mettere in atto?

4. Su chi posso contare?

Dalle coppie in crisi alle coppie con figli adottati e reduci da numerosi aborti spontanei, dalle coppie inconsapevoli di essere diventati genitori alle coppie dedite alla filosofia rigidamente “secondo natura”, American life è uno scorcio ampio sulla famiglia oggi e su quanto non sia faticoso condividere quest’avventura oltre le mura della propria casa e al contempo, per dirla con le parole della scrittrice e pediatra Elena Balsamo, non esista «un solo modo o un modo che possa essere considerato “giusto” per crescere i bambini, ma tanti modi diversi quante sono le culture e, potremmo aggiungere, quanti sono i bambini perché, come ogni genitore sa, ciò che è adatto per un figlio non è detto che lo sia per tutti gli altri».

Inframmezzati a quesiti globalizzati come quelli sopra citati, la sceneggiatura dosa sapientemente dettagli che appartengono ad ogni gravidanza, come quello per cui alla fine del sesto mese se hai conservato una certa forma fisica, la pancia del nascituro risulta al mondo esterno nella sua esplosiva perfezione rotondeggiante. Una sorta di gioiosa anguria incollata all’ombelico. Accade così che sempre il resto del mondo inizia a chiederti senza tregua “quanto manca” o a suggerirti che a parere loro “manca poco”. Cosa assai irreale visto che nel migliore dei casi allo svolazzo della cicogna mancano almeno ben 90 giorni, che proprio pochi non sono… e più di qualcosina c’è ancora da crescere. E inizia così il dilemma su quale mezzo di trasporto scegliere e su quale aereo ti lasceranno salire.


Dopo la carrozzina de La corazzata Potemkin di Sergej M. Ejzenstejn, la scena che passerà alla storia di American life sarà quella del passeggino citata sopra. Burt e Verona regalano un passeggino ad una coppia (la cugina e il compagno) assorta in comportamenti “secondo natura” più esteriori che interiori. Vedendo che non ce l’hanno, immaginano che non se lo possano permettere, ma in realtà in loro vi è un’avversione integralista, quasi demoniaca, al mezzo e se i loro bimbi non sono attaccati alla tetta, sono senza dubbio addosso con la fascia o immersi nel co-sleeping. Non racconto interamente cosa accade dopo per non togliere il gusto divertito di vedere la sequenza nel vivo del film, ma si tratta di una scena madre che rivela come spesso aderire in modo rigido e assoluto ad un approccio piuttosto che ad un altro porti con sé almeno due conseguenze abbastanza malvagie:

• Un’esclusione umiliante e aggressiva dell’Altro che ignora o non opta per lo stesso approccio.

• Una crescita indotta e smisurata del desiderio del figlio di avvicinarsi a quella zona comportamentale off-limits.

Partecipando agli incontri della Leche Legue - Lega Latte (http://www.lllitalia.org/) nel secondo trimestre della gravidanza di Viola, ascoltai il racconto di una consulente che consigliava di conoscere le preferenze del proprio bimbo prima di fare gli acquisti tutt’altro che economici previsti nell capitolo “trasporto bimbo”. Mi riferisco a carrozzine, passeggini e quant’altro. Il suo bimbo non aveva mai voluto stare in carrozzina e alla fin fine l’aveva comprata per niente. Per di più, e per fortuna, anche da noi iniziano ad avere un certo successo le fasce che nei paesi africani o dell’America Latina rappresentano la normalità e la tradizione. Questa tipologia di trasporto viene identificata nella letteratura del “maternage” come il modo più naturale di portare il bimbo con sé. Letteralmente “indossarlo” non tanto per trasportarlo ma per il contatto e la relazione che ne deriva. Pratica particolarmente indicata per bambini nati prematuramente, la fascia portabebè è un modo economico ed ecologico per camminare, muoversi, lavorare “affettivamente” vicini ai propri bimbi. Esemplare lo scalpore che fece mesi fa la foto dell’europarlamentare italiana che votata con il suo bimbo al petto avvolto nella fascia.


Molto interessante per approfondire le motivazioni e le opportunità di questa pratica il libro “Portare i piccoli” di Esther Weber di cui cito di seguito un piccolo estratto.

«Cosa si intende esattamente con portare? Si tratta di una pratica scomoda o comoda (secondo il punto di vista) per trasportare i bambini piccoli, o magari c’è di più? La lingua stessa ci fornisce un primo approccio. Il dizionario Sansoni restituisce 22 significati diversi per il verbo portare; una di quelle parole che si possono utilizzare in molte circostanze per illustrare varie situazioni fisiche ma anche metaforiche e simboliche. Tra i significati posso elencare: portare un peso, farsi carico di un peso, indossare, tenere, sostenere qualcosa o qualcuno, sopportare, supportare, trasportare, muovere qualcosa o qualcuno da una parte all’altra. È subito evidente che sostanzialmente si distinguono due significati: il significato stabile, che si fa carico di un peso, lo sostiene, lo regge, lo sop-porta, lo sup-porta e il significato mobile, che muove il peso e lo tras-porta. Portare un bambino piccolo non è poi così diverso: significa farsi carico, letteralmente, del bambino, tenerlo addosso, sostenerlo e poi muoversi insieme a lui, con lui addosso o, con l’espressione usata nei paesi anglofoni,“indossando il bambino”. E non solo. Questo libro è un invito a riflettere sul significato del portare nell’ottica di una relazione individuale, per evitare approcci semplicistici (basta mettersi il bambino addosso) oppure ideologici (bisogna portare il bambino continuamente a contatto) oppure di moda (è chic tenersi il pupo addosso)».


Concretamente ci sono però periodi dell’inverno che se non hai una giacca pesante studiata appositamente per la fascia in vendita negli empori bio o in internet (altra spesa non irrisoria;-) http://mamdesign.net/carrying/clothes/twoway.html diventa alquanto improbabile portare i piccoli in questo modo. Ma se non ci sono zero gradi e devi fare il pieno al supermercato in compagnia del tuo neonato, e ovviamente sei sola…, la fascia è davvero salvifica. Al di là della praticità, la naturalezza con cui i bimbi ci scivolano dentro ritrovando il movimentato benessere dei 9 mesi in pancia è senza dubbio una delle coccole più belle da non perdere. Viola, a contatto con il mio petto, dopo pochi movimenti è già tra le braccia di Morfeo… al che m’immagino che durante la gravidanza con lo stesso balletto quotidiano si sia fatta nanne infinite. Insomma la "mamma marsupio" ha il suo perché comprensibile anche ad occhi poco esperti come i miei. Pensate che in alcune città ci sono associazioni che organizzano anche corsi su come portare i piccoli o blog che aiutano a cucirsi artigianalmente la fascia http://mammacanguro.blogspot.com/2010/08/fai-da-te-come-realizzare-e-cucire-una.html. Lo stesso pezzo di stoffa (non vanno bene tutti i tessuti) può essere legato al nostro corpo in moltissimi modi. Ed esistono fasce molto diverse, io ne ho provate due completamente diverse (una prestata, una acquistata). E ovviamente la fascia è indossabile quanto dalle donne come dagli uomini. Se per caso ci fosse stato qualche dubbio che fosse cosa di sole mamme!?


Ahimè… dopo mesi di esperienza posso dire però che se non abiti in centro città dove hai tutti i servizi comodi anche a piedi e soprattutto se non ti compri la giacca porta bebè per l’inverno, muoversi come una mamma canguro diventa alquanto arduo e la carrozzina indispensabile. In casa nostra, non come nella dimora della cugina di Bart, i due mezzi di trasporto convivono senza contese e supremazie infinite dal sapore mediorientale. La carrozzina è davvero un mezzo che consente di affrontare spostamenti che altrimenti non si potrebbero fare e che di certo non spinge i bimbi lontano da noi, ma la fascia è qualcosa di più, oltre il trasporto, che va sperimentata in tanti piccoli spazi quotidiani che regalano quella prossimità di cui un bimbo piccolo piccolo e chi lo cura hanno senz’altro bisogno.

C’è da dire che fa bene spostarsi anche in carrozzina perché quel “diversamente abile” di cui tanto ci riempiamo la bocca diventa un vero incubo. Le nostre città sono davvero inospitali per chi vive la sua vita in carrozzina. Prova a girare per marciapiedi abitati dalle auto in sosta, distrutti dalle buche o dalle radici di alberi che fanno esplodere la pavimentazione. Prova ad entrare in tanti negozi, bar e altri servizi dove prima devi superare le cosiddette barriere. Prova a cercare una toilette in cui cambiare un bimbo. Da quando sono madre ogni volta che devo effettuare degli spostamenti con Viola (mille volte al giorno!) prima di partire da casa ripercorro nel dettaglio tutta la strada e i posti dove devo entrare e verifico mentalmente se ce la faccio a fare tutto con Viola in braccio, in fascia o carrozzina. La viabilità è sicuramente pensata per i mezzi pensati ma non certo per i mezzi superleggeri che pesano solo qualche chilogrammo di vita. Il bimbo si sa che non produce PIL.


Ora mancavano pure i ristoranti a cui è negato l’accesso ai bimbi http://www.corriere.it/cronache/10_novembre_16/dagli-aerei-ai-ristoranti-avanza-il-fronte-no-kids-elvira-serra_99575ab6-f153-11df-8c4b-00144f02aabc.shtml, ma forse lì entreranno soprattutto barboncini raffinati ed educati che sanno quando non devono abbaiare. In questi mesi ho capito che l’Italia non è fatta per famiglie, anziani, disabili e i tanto odiati bambini. Forse nemmeno per i single. Ma per chi è allora??? Comunque, come recita il titolo di un bel documentario sulle note di Ligabue, “Niente paura”, continuiamo a fare del nostro meglio per questo paese. Alla fin fine è ancora giovane, solo 150 anni…, ne deve fare ancora di strada.